
4 gennaio 1960. Albert Camus muore in un incidente stradale. Tra i rottami dell’automobile fu rinvenuto un manoscritto con correzioni, varianti e cancellature: la stesura originaria di Il primo uomo, sulla quale la figlia Catherine, dopo un meticoloso lavoro filologico, ha ricostruito ciò che è diventato Il primo uomo, Bompiani, 2015.
Romanzo di una crescita, quando il primo uomo, cioè l’uomo in formazione, prefigura l’adulto. Il libro è ricco di esperienze condivise, incontri, scelte e ricordi: ecco la chiave, Camus è stato costantemente nutrito nel cuore e tutto contribuisce a costruire l’uomo definitivo. Ma c’è comunque il primo, che è tuttavia già un uomo, non un bambino. Perché?
Non può esserci più alta ispirazione e nello stesso tempo più profonda coscienza del reale di quelle che troviamo nella poetica narrazione che Camus fa del proprio percorso.
Da Algeri, una donna, che è incinta e non sente, un bambino di quattro anni e un uomo, il marito, Henry Cormery, si recano a Bona per poi dirigersi alla tenuta vicina al villaggio di Solerino, di cui l’uomo doveva assumere la gestione. È il padre dello scrittore, Camus si rende conto che ha bisogno del padre che non ha mai conosciuto in quanto morto in seguito in guerra: ho cercato sin dall’inizio, ancora bambino, di scoprire da solo che cosa fosse bene e che cosa fosse male – poiché intorno a me nessuno era in grado di dirmelo. E ora che tutto mi abbandona, mi rendo conto di aver bisogno di qualcuno che mi indichi la strada e mi dia biasimo e lode, non in nome del potere ma in quello dell’autorità, ho bisogno di mio padre (Albert Camus, op. cit., p. 42). Ecco allora la ricerca delle tracce del padre, il pellegrinaggio alla sua tomba.
Tante sono le presenze importanti nel libro come Etienne (o Ernest), il fratello della madre, vittima di accessi di collera, che vive con loro, come Victor Malan, un suo amico, che aveva sempre lavorato nell’amministrazione doganale e che era andato in pensione, il gruppo degli amici d’infanzia, Pierre, Joseph, Jean, Max, ecc. ma su tutte prevalgono le figure della madre (ciò che lui ama di più al mondo, sia pure di un amore disperato) e della nonna, fredda e distante. Ecco le parole dello scrittore nel rivedere la madre ad Algeri con l’intento di avere anche notizie del padre: Quando fu davanti alla porta, sua madre aprì e gli si gettò fra le braccia. Poi, come ogni volta che si rivedevano, lo baciò due o tre volte, stringendolo a sé con tutte le sue forze, e lui sentì sulle braccia le costole e le ossa dure e sporgenti delle spalle un po’ tremule, mentre respirava il dolce profumo della pelle che gli ricordava quel punto, sotto il pomo d’Adamo, fra i due tendini giugulari, che non osava più baciare, ma che piaceva respirare e accarezzare da bambino, quelle rare volte in cui lo prendeva sulle ginocchia e lui fingeva d’addormentarsi, con il naso schiacciato contro quel piccolo incavo che aveva l’odore, troppo raro, nella sua vita infantile, della tenerezza (p. 62). Era sempre stata civetta e, per quanto vestisse poveramente, il figlio non ricordava di averle mai visto addosso qualcosa di brutto, faceva il bucato e le pulizie per gli altri ma lavorava anche per i suoi. Analfabeta, con difficoltà di parola (un tifo, forse), dolce, gentile, conciliante, persino passiva, e tuttavia mai conquistata da niente e da nessuno, isolata nella sua semisordità, nelle sue difficoltà con la lingua, bella certo, ma inaccessibile, e più ancora quanto più sorrideva, e il cuore di Jacques si slanciava verso di lei (…) (p. 65). Catherine, ammirata, amata, verso la quale Albert rivolge i suoi sentimenti più dolci: A Jacques piaceva guardare la madre o la nonna quando compivano la cerimonia dell’acconciatura. Con uno asciugamano sulle spalle, la bocca piena di forcine, pettinavano con cura i lunghi i capelli bianchi o bruni, poi li sollevavano, li tiravano in bandeaux molto serrati sino allo chignon sulla nuca, che crivellavano di forcine, tolte l’una dopo l’altra dalla bocca, schiudendo le labbra e stringendo i denti, e piantate l’una dopo l’altra nella massa compatta della crocchia (p. 126).
Albert si rendeva conto che la povertà, l’infermità, il bisogno in cui viveva l’intera sua famiglia, se non giustificavano tutto, impedivano comunque di condannare quelli che ne erano vittime (p. 129). Albert si sente il più ricco e forse la capacità di amare era già in lui: Jacques li udiva allontanarsi, ne ascoltava le voci rozze e calorose, li amava (p. 117). Albert è capace di intuire gli istanti, di coglierli nella loro pienezza, in tutto ciò che hanno di dolce, di tenero, di intimo, di condiviso. Empatia, compassione, comprensione, questi sono i sentimenti con cui si è forgiato lo scrittore.
Quale è l’eredità ricevuta? L’eredità è la capacità di amare talmente forte da essere anche da intralcio. Felicità fatta di piccole cose: …la luce, che si stava addolcendo in modo impercettibile, faceva apparire il cielo ancora più vasto, così vasto che il ragazzo sentiva salire le lacrime agli occhi, insieme con un grande grido di gioia e di gratitudine per la vita adorabile (p. 137). Può un’infanzia essere misera e felice? Albert non sarebbe mai stato sicuro che quei ricordi così ricchi che gli sgorgavano dentro corrispondessero davvero al bambino che era stato (p. 139). Si sa, si ha la tendenza a idealizzare, a mitizzare la propria infanzia (e anche il proprio padre). La vera nobiltà di Camus è la sua famiglia dalla quale impara ad amare la bellezza.
Alla scuola comunale, è il signor Bernard (Germain) (forse il padre che non ha mai conosciuto?), amante appassionatamente del proprio mestiere, a modificare il destino di Albert: alla materna andava già con Pierre…i ragazzi erano diventati veramente amici, sin da quel primo giorno quando, con Jacques che portava ancora il grembiulino ed era stato affidato a Pierre, cosciente dei suoi calzoni e dei suoi doveri di maggiore, erano andati insieme alla scuola materna. E insieme avevano poi frequentato le varie classi, sino a quella per la licenza media in cui Jacques era entrato a nove anni. Per cinque anni, avevano fatto quattro volte al giorno lo stesso percorso, l’uno biondo e l’altro bruno, l’uno tranquillo e l’altro focoso, ma fratelli per le origini e il destino, bravi scolari entrambi e, nello stesso tempo, giocatori infaticabili (pp. 143-144). La scuola è un’evasione dalla vita in famiglia, soltanto la scuola offriva a Jacques e Pierre le uniche gioie della vita, appagava la sete della scoperta. Con Germain, per la prima volta in vita loro, avevano sentito di esistere e di essere oggetto della più alta considerazione. Germain parlava della sua vita e della guerra che aveva fatto per quattro anni, leggeva ai ragazzi brani della Croix de bois di Dorgelès. Il giorno in cui, finito di leggere il libro, Albert ha il volto rigato di lacrime, ed è scosso da singhiozzi interminabili, Germain si avvicina, gli porge un libro, Croix de bois, appunto. Il maestro ha intuito il talento, la sensibilità di Camus, il desiderio di imparare, la curiosità, l’intelligenza. Il maestro lo predilige, lo ama, lo lancia nel mondo, assumendosi da solo la responsabilità di staccarlo dalle sue radici perché possa andare a fare scoperte ancora più grandi, lui che presenta Jacques al concorso per la borsa di studio per il liceo. La nonna aveva accettato che, per un beneficio più grande, il nipote, per qualche anno, non portasse soldi a casa.
Cosa ci dice questo primo uomo del futuro Camus? Che avrebbe sentito irresistibilmente l’attrazione delle donne straniere (recentemente è stata pubblicata la corrispondenza, 1944-1959, con Maria Casarès, attrice spagnola, grande amore dello scrittore), che avrebbe avuto un carattere multiforme che gli avrebbe facilitato tante cose, che avrebbe condiviso e difeso le cause dei più deboli, degli arabi lui, francese, che aveva vissuto ed era cresciuto con gli arabi, che avrebbe combattuto con i suoi scritti il colonialismo (A Solferino erano arrivati i coloni parigini: C’era molta disoccupazione a Parigi e la gente si agitava, così la Costituente aveva stanziato cinquanta milioni per finanziare una colonia, promettendo a chi accettava di emigrare una casa e da 2 a 10 ettari (pp. 190-191). Camus vive sulla sua pelle il rapporto con gli Arabi e infatti il problema della convivenza tra Francesi e Arabi lo interesserà tutta la vita. Il colonialismo sarà uno dei temi che più appassionerà lo scrittore perché siamo fatti per intenderci: Stupidi e rozzi come noi, ma con lo stesso sangue da uomini. Continueremo ancora un po’ ad ammazzarci, a tagliarci i coglioni, a torturarci. Poi ricominceremo a vivere tra uomini. È il paese che lo vuole (p. 187). La lettura delle pagine di questo libro ci dice ancora che lo scrittore avrebbe combattuto non solo la pena di morte ma anche la guerra (la guerra faceva parte del loro universo di ragazzi, non sentivano parlare d’altro: Si rese conto che la guerra non è una buona cosa, poiché sconfiggere un uomo è amaro quanto esserne sconfitto – p. 161), che avrebbe amato sempre con passione il calcio, rigorosamente con una palla di stracci!
Quante volte ritroveremo nelle opere del grande scrittore i grandi temi dell’amore per i libri, della giustizia, della passione per la gloria e l’eroismo, del senso di vergogna che non lo abbandonerà mai, della strada, il quartiere, l’insaziabile voglia di vivere, un’intelligenza ingorda e selvaggia, il continuo delirio di gioia e poi le atmosfere del mediterraneo, il sole, la luce che acceca, la sabbia delle spiagge, la polvere, il furore del vento, il caldo torrido, tremendo che spesso faceva impazzire, la gente sempre più nervosa, il mare infocato sotto il sole: pensiamo a L’étranger (Lo straniero) e al luogo dove si svolge l’omicidio, al suo movente, l’arabo viene ucciso…per colpa del sole…
Quali erano i passatempi del giovane Albert? Eccone uno: la fabbricazione di terrificanti veleni. I ragazzi avevano accatastato, sotto una vecchia panca di pietra addossata a un pezzo di muro coperto da una vite selvatica, tutto un armamentario di tubetti di aspirina, flaconi di medicine, vecchi calamai, cocci di stoviglie e tazze sbocconcellate che costituiva il loro laboratorio. E lì, isolati nel folto del parco, al riparo da occhi indiscreti, preparavano filtri misteriosi. La base era l’oleandro, semplicemente perché avevano spesso sentito dire che aveva un’ombra malefica e che l’imprudente che si fosse addormentato ai suoi piedi non si sarebbe risvegliato mai più. Le foglie e il fiore di questa pianta, quando era la stagione, venivano così triturati a lungo fra due sassi sino a formare una brutta pappa (malsana) che, col suo solo aspetto, prometteva una morte orribile. Questa pappa veniva lasciata all’aria, dove assumeva subito alcune iridescenze particolarmente spaventose. Nel frattempo, uno dei ragazzi correva a riempire d’acqua una vecchia bottiglia. Venivano poi triturate le pigne di cipresso. I ragazzi erano convinti che fossero malefiche soltanto perché e duri. Le due pappe venivano poi mescolate in una vecchia scodella, e filtrate attraverso un fazzoletto sporco. Il succo che se ne ricavava era maneggiato dai ragazzi con tutte le precauzioni che si devono prendere con un veleno fulminante. In altre parole, le travasavano con cura in tubetti d’aspirina o in flaconi di medicinali che evitando di toccare il liquido. Ciò che restava lo mescolavano poi ad altre pappe, preparate con tutte le bacche che riuscivano a raccogliere, al fine di produrre una serie di veleni sempre più micidiali, meticolosamente numerati e lasciati sotto la panca di pietra sino alla settimana successiva, per far sì che la fermentazione rendesse quegli elisir irrimediabilmente funesti. Concluso questo tenebroso lavoro, J. E P. contemplavano estasiati la loro collezione di veleni e annusavano giubilanti l’odore acido e amaro che saliva dalla pietra macchiata di pappa verde. Quei veleni, però, non erano destinati a nessuno (pp. 246-247).
Lentamente l’uomo si sviluppa, avanza: Sì, era un uomo, pagava una parte del suo debito…(280).A quarant’anni, nel tornare ad Algeri, Jacques si vede quale è diventato, sa di essere certamente nulla in confronto alla madre, sa che c’è una parte oscura dell’individuo, ciò che in tutti quegli anni si era agitato in lui sordamente: Quella notte che era in lui, sì, quelle radici oscure e confuse che lo collegavano a questa terra splendida e terrificante, ai suoi giorni infuocati come alle sue sere improvvise che ti stringono il cuore, e che era stata come una seconda vita, forse la più vera sotto le apparenze quotidiane della prima, con una storia fatta di un susseguirsi di desideri oscuri e di sensazioni potenti e indescrivibili, l’odore delle scuole, delle stalle del quartiere, dei detersivi sulle mani di sua madre, dei gelsomini e dei caprifogli nei quartieri alti, delle pagine del dizionario e dei libri divorati, e l’odore acre dei gabinetti di casa sua e del magazzino di ferramenta, quello delle grandi aule fredde dove gli accadeva di entrare da solo prima o dopo la lezione, il calore dei compagni preferiti, l’odore di lana calda e di feci che si portava appresso Didier, o quello di acqua di colonia che la madre del grosso Marconi diffondeva a profusione su di lui e gli faceva venir voglia, sul banco della sua classe, di riavvicinarsi all’amico, il profumo di quel rossetto che Pierre aveva sottratto a una zia e che annusavano in molti (…). Era da questa oscurità che era in lui che nasceva quell’ardore famelico, quella follia di vivere che lo aveva sempre abitato e che ancora oggi lo manteneva intatto, rendendo soltanto più amara – in mezzo alla famiglia ritrovata e alle immagini dell’infanzia – l’improvvisa e terribile sensazione che il tempo della giovinezza stesse fuggendo… (p. 289).
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Una replica a “La memoria del cuore. Albert Camus, “Il primo uomo”: come una lama solitaria e vibrante destinata a spezzarsi all’improvviso e per sempre. Saggio di Fausta Genziana Le Piane”
Letto con grande interesse. Bello riparlare della vita e dell’opera di Camus.
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