“Lo sguardo deluso degli specchi” di Luca Gamberini. Recensione di Cristina Biolcati

C’è un poeta che seguo da un po’, che più di ogni altro rimanda nei suoi versi i riflessi di uno specchio spietato. Perché la vita porta inevitabilmente all’imperfezione, specie quando si inizia ad avere qualche anno e più di qualche acciacco, ma non per questo perde la sua bellezza.

Bellezza che risiede in un gesto, ricco d’armonia. In un animale o in un amore, in quanto cari al cuore e salvifici, da utilizzare come cura. Ci sono infatti situazioni o persone che sono entrate nell’intimo e hanno scavato un solco indelebile nella nostra corteccia. Un posto unico, a loro riservato, che sarà lì per sempre, al di là dello spazio e del tempo. Affetti che hanno graffiato l’imperturbabilità della ragione e torneranno, seppure in uno scorcio stonato, nella malattia, nella solitudine. Come smalto che diventa opaco ma poi, ad ogni carezza, riacquista la sua lucentezza, anche l’opera dei poeti contribuisce nel profondo a far emergere quel che di pittoresco risiede nelle brutture.

Luca Gamberini, nato a Bologna nel 1967, è il poeta delle cose autentiche, delle parole spese al bar, delle frasi sussurrate ai cani, ai gatti. Dice di sé, nella sua biografia: “… per tutto il resto sembra possa esserci tempo.” E io, che appunto l’ho seguito nelle precedenti pubblicazioni, mi ritrovo a parlare della sua ultima fatica Lo sguardo deluso degli specchi (Yucanprint, novembre 2022), con un’illuminante Prefazione di Carmine Mangone e la bella copertina realizzata da Ilaria Carassiti.

Un volume piccino. Poco più di ottanta pagine, perché l’autore è delicato nel suo proporre, mai invadente. E poiché anche i libri sono, appunto, specchio di un’anima, la pubblicazione in self ne riverbera lo spirito libero.

Mi hanno sempre incantato le sue rime dolci, ma azzeccate. Le sue costruzioni in ordine perfetto, lineari, senza una reale geometria. I suoi versi strazianti, in cui scaturisce il dolore di un’anima che sperimenta tutto sulla propria pelle.

In questa raccolta, in particolare, ho trovato un Luca Gamberini più maturo, disposto a dissertare sull’amore, espresso in ogni sua forma, che però può avere anche il corpo della donna amata. Un retrogusto amaro di fondo resta, perché quella del poeta è una spietata analisi della realtà, dove i voli pindarici non si lasciano prendere dal desiderio di inutili utopie, bensì vengono utilizzati ed inseriti per valorizzare i soggetti. Poco chiede per sé, insomma in poeta, ma la sua analisi è lucida e precisa. Che egli riesce a realizzare sempre in modo suggestivo, e qui sicuramente sta il valore aggiunto.

Consiglio questa lettura a chi non ama solo la musicalità dei versi, ma percepisce l’onesta disanima che trasuda dalle parole. E concludo citando Apatia, per dare una dimostrazione pratica di quel che intendo.

“So fare bene a sedermi/ poco altro so fare, forse/ niente./ E poi so fare bene a guardare./ Osservare per ore le cose immobili./ I miei occhi non piangono mai/ per qualcosa di mio/ mi sento di nessuno, quanto un asfalto/ che tutti ci passano sopra/ ed io osservo/ e so fare a stare muto per una vita/ mentre una ad una te ne vai/ ed io rimango ad osservare/ le immobili cose da seduto./ Muto.”

La poesia è bella perché è libera, un genere che dà a ciascun lettore differenti sensazioni. Nulla di pilotato, quindi. Però riportando questi versi di Luca Gamberini, chissà perché, un poco m’illudo di averlo compreso.

*

È vietato riprodurre il presente testo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autrice. La citazione è consentita e, quale riferimento bibliografico, oltre a riportare nome e cognome dell’Autrice, titolo integrale del brano, si dovrà far seguire il riferimento «Nuova Euterpe», n°01/2023 unitamente al link dove l’opera si trova.


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