“I libri: lo specchio dell’Io. Guido Morselli e l’ultimo romanzo: “Dissipatio H.G.””. Saggio di Maria Grazia Ferraris

Hegel ha sognato una realtà in sé per sé, io sognavo una realtà con me e per me.

Dove gli altri non hanno luogo, perché non ci sono (GUIDO MORSELLI)

I libri rispecchiano sempre l’autore, qualsiasi sia il genere letterario in cui si inseriscono. Giustamente Cesare Pavese affermava: «Ogni autentico scrittore è splendidamente monotono, in quanto nelle sue pagine vige uno stampo ricorrente, una legge formale di fantasia, che trasforma il più diverso materiale in figure e in situazioni che sono sempre press’a poco le stesse». In modo esemplare questo avviene in un autore geniale come Guido Morselli[1] che ne è autorevolmente consapevole (basta leggere le sue  prefazioni, i paratesti ai saggi e ai romanzi autoriali oltre che i suoi romanzi) in cui narratore e protagonista coincidono, facendo del narratore-protagonista, onnipresente nell’opera, il proprio alter-ego, in un dialogo dell’io con se stesso, che si costruisce  per mezzo della scrittura e la sfrutta mediandola, come un Giano bifronte, in una prospettiva drammaticamente solipsistica, dove l’autobiografia implicita non è solo solipsismo, ma io straripante, oggetto di una vera e propria narrazione che  assume una cifra del tutto particolare, di dialogo con personaggi scomparsi, specialmente nell’ultimo suo romanzo: Dissipatio H.G.( l’ultimo romanzo prima del suicidio dell’Autore). Tutta la produzione di Morselli del resto – dai saggi ai racconti, ai romanzi, al Diario – vanta una componente fortemente legata e condizionata al vissuto personale dell’autore varesino.

Dissipatio H.G. è un’opera originalmente e definitivamente autobiografica, che rispecchia l’Autore al punto tale che il suo protagonista, che parla in prima persona, finisce con l’indentificarsi con l’autore, e non lascia spazio a fraintendimenti. È insieme una cronaca memorialistica e un denso resoconto di un passato incancellabile, fallimentare, che continua a riaffiorare ossessivamente. Il romanzo venne scritto tra il 1972 e ’73 – Dissipatio Humani Generis è il titolo desunto dal tardo-latino Giambico – è composto da venti capitoli brevi e composto nella forma di un quadernetto di appunti che occupano la durata di un mese (giugno) circa. Non ha trama. I vari personaggi vivono solo in correlazione con l’autore. Non avendo genere non è etichettabile. È figlio di una mente alta e altra mai pacificamente catalogabile. Può essere questo il motivo principale per il quale è stato clamorosamente rifiutato dagli editori, salvo essere ripetutamente omaggiato dopo la morte dell’Autore.

Due sono i tempi delle azioni. La prima è la scoperta che il mondo è vuoto dalla presenza degli umani, la seconda dalla scoperta devastante che il vuoto dei altri è l’altra faccia del vuoto dentro il proprio io. In ognuno di questi tempi assisteremo al tentativo del narratore di suicidarsi, il suicidio infatti, come per la storia umana di Morselli, è il centro dell’opera: «gli uomini ubbidiscono alla chiamata della morte. Io, per esempio, non ho ubbidito. Ero refrattario alle chiamate, evidentemente; virtù o viltà, sopravvivo» fa dire all’io narrante ancora indeciso.

Il protagonista di Dissipatio H.G., uomo lucidissimo, ironico, ipocondriaco, e soprattutto ‘fobantropo’, attirato da un feroce solipsismo, decide – già all’inizio del racconto – di annegarsi in uno strano laghetto in fondo a una caverna, in montagna. Ma all’ultimo momento cambia idea e torna indietro. Il genere umano proprio in quel breve intervallo, è scomparso, volatilizzato. Per il resto tutto è rimasto intatto. Così paradossalmente l’umanità è ora rappresentata da un singolo che era sul punto di abbandonarla e che comunque non si sente adatto a rappresentare alcunché; neppure a tratti se stesso.

La volontà di suicidio del protagonista che desidera annegarsi in un laghetto è fortemente sociale ed è legata alla collettività, perché a sparire non sarà lui, che cambierà idea e non si getterà nel lago, ma l’intera umanità che evapora nel nulla, mentre lui rimane l’ultimo essere umano presente sulla faccia della terra, trovandosi un mondo silenziosamente mutato, senza nessun evento catastrofico. L’uomo che voleva morire è l’unico a sopravvivere. È l’elaborazione narrativa di una fantasia di angoscia – la scomparsa del genere umano –  «Io sono ormai l’Umanità, io sono la Società. Nessuno dispone di me, io dispongo di tutto. Non c’è più che l’Io, e l’Io non è più che mio. Sono io».

Morselli espone e indaga la triplice liberazione: dall’uomo, dal tempo e dalla proprietà. La scomparsa dell’uomo dalla faccia della terra si trascina dietro la scomparsa del concetto del tempo (chiaro elemento soggettivo) e della proprietà, con conseguente fine delle guerre e delle distruzioni. Cosa resta dunque dopo la scomparsa del genere umano? Rimane una natura che riavrà finalmente se stessa. La fine dell’uomo non è affatto la fine del mondo.

«La fine del mondo? Uno degli scherzi dell’antropocentrismo: descrivere la fine della specie come implicante la morte della natura vegetale e animale, la fine stessa della Terra. La caduta dei cieli. Non esiste escatologia che non consideri la permanenza dell’uomo come essenziale alla permanenza delle cose. Si ammette che le cose possano cominciare prima, ma non che possano finire dopo di noi. […] Andiamo, sapienti e presuntuosi, vi davate troppa importanza. Il mondo non è mai stato così vivo, come oggi che una certa razza di bipedi ha smesso di frequentarlo. Non è mai stato così pulito, luccicante, allegro».

Le caratteristiche del protagonista sono quelle di Morselli-uomo. Ama la solitudine, è in fuga da se stesso e dagli altri, vive, ecologista ante-litteram, appartato e solo in una dimora alpina nel cuore privilegiato dei luoghi morselliani, la Svizzera, di cui pur disprezza l’opulenza borghese e i suoi rituali perbenistici, incapace di voli pindarici fantastici e dell’illusione del meraviglioso, consapevole del suo lucido raziocinare nichilistico, autoironico, ma condannato alla mediocrità.

Comincia allora un appassionante monologo, sullo sfondo della solitudine assoluta e di un silenzio rotto soltanto da qualche voce di animale o dal ronzio di macchine che continuano a funzionare. Ed è un monologo che presto si trasforma in un dialogo con tutti i morti, tenuto da un unico vivo che a momenti pensa di essere anch’egli morto. Riaffiorano spezzoni di ricordi, particolari sepolti riemergono come decisivi e, mentre i pensieri si affollano, cerca dappertutto un qualche altro sopravvissuto, vaga tra luoghi odiati e amati, tra le sue montagne e Crisopoli (chiaramente Zurigo). Tutto è uguale, eppure tutto è per sempre trasformato.

«Eppure il silenzio gravava e io lo registravo con un senso diverso da quello uditivo, forse emozionale, forse riflesso e ragionante. Ciò che fa il silenzio e il suo contrario, in ultima analisi è la presenza umana, gradita o sgradita; e la sua mancanza. Nulla le sostituisce, in questo loro effetto. E il silenzio da assenza umana, mi accorgevo, è un silenzio che non scorre. Si accumula». Una summa di sé. Una continua ricerca e ridefinizione che il narratore dà di se stesso e della relazione con gli altri che non ci sono più. «Il pensiero è stato quasi sempre solitario, fine a se stesso, asociale. Secreto da monadi senza finestre, o che non si curavano di mettersi alla finestra. L’idolatria della comunicazione era un vizio recente. E la società, dopotutto, era semplicemente una cattiva abitudine».

Non può comunicare, solo scrivere. Scrivere è diventato nella struttura che regge il romanzo la unica comunicazione con il proprio sé: l’altro non esiste nel romanzo, come non è presente nella vita dell’autore.

«Lo faccio, e sono contento di farlo, soltanto per me. Io sono il destinatario, non il provvisorio consegnatario». Lo spazio di scrittura quindi è senza interlocutori, come è avvenuto del resto nella vita di Morselli, in attesa di essere riconosciuto come romanziere, scrittore, l’unico superstite che attende che qualche fantasma si renda visibile. Eppure Morselli sa per esperienza che narrare è una finzione, un falso, e che ormai non è rimasto più niente da narrare… è consapevole che tutto ciò che un narratore narra non sono altro che preconcetti, le proprie ubbie, le proprie emozioni, i propri ricordi, perché «l’esserci ha una tendenza essenziale alla vicinanza». «Oggi noi non possiamo narrare che tutto ciò che ci è «vicino» e quindi incomprensibile; ciò che è «lontano» ormai non fa più parte del demanio del «romanzo» è desiderio irrealizzabile». Morselli ci fa attraversare con mirabile sottigliezza tutte le reazioni del sopravvissuto, che vanno da una sinistra ironia e, quasi, euforia, alla «superbia solipsistica», finché a poco a poco si fa strada in lui la paura, un’angoscia senza confini.

«Io sopravvivo. Dunque sono stato prescelto, o sono stato escluso. Niente caso: volontà. Che spetta a me interpretare, questo sì. Concluderò che sono il prescelto, se suppongo che nella notte del 2 giugno l’umanità ha meritato di finire, e la dissipatio è stata un castigo. Concluderò che sono l’escluso se suppongo che è stata un mistero glorioso, assunzione all’empireo, angelicazione della Specie, eccetera. È un’alternativa assoluta, ma mi si concede di scegliere. Io, l’eletto o il dannato. Con la curiosa caratteristica che sta in me eleggermi o dannarmi. E bisognerà che mi decida».

«La memoria involontaria non ha altro, e questi ricordi vi fluttuano insistenti e vaghi. Relitti inconsistenti, e ormai reliquie. Un lungo panico, in principio. E poi, ma tramontata subito, incredulità, e poi di nuovo paura. Adesso l’adattamento».

«Se c’è stata l’umanità e ora ci sono io, solo io, decido di assumermi i compiti che ‘loro’ hanno dovuto abbandonare. Che cosa facevano ‘loro’ in sostanza? Che cosa facevano? Beh, è abbastanza semplice: agivano in vista di utilità. Inoltre, ragionavano sulle cose che si vedevano intorno, o che credevano di vedersi dentro. Poi, le rappresentavano, parole, segni, suoni. Altro non facevano. Sarò un riduttivo (un semplificatore), ma ho idea di non avere tralasciato nulla. Continuarli, o sostituirli, non è un’impresa da farmi tremare, non farebbe tremare nessuno. In fin dei conti non avevano troppe pretese, né ambizioni».

E, mentre il delirio corrompe ogni residua certezza, il protagonista si abbandona a cercare le improbabili tracce di un amico dimenticato, unico ricordo di rapporto reale che gli resti della sua vita precedente. C’è qualcosa di disperato e, insieme di sereno in queste pagine, fra le più belle di tutto Morselli – e certo le sole in cui accetti di far trasparire la sua dura pena personale. E c’è, alla fine, una grande immagine in cui convivono, pacificati, tutto e il contrario di tutto: nelle strade deserte di Crisopoli-Zurigo, coperte ormai da uno strato leggero di terriccio, crescono piantine selvatiche. Nel Mercato dei Mercati spuntano, ignari, i ranuncoli e la cicoria. E l’ultimo uomo, che già era stato del tutto solitario fra gli uomini, siede e aspetta.

«Fatemi morire, nel bene o nel male li devo raggiungere. Non ero diverso da loro, mi assomigliavano tutti. Ignoranza e superbia incluse» dichiara il disagio personale del non-riconoscimento, del vuoto: «È che sono solo. Il mondo sono io, e io sono stanco di questo mondo, di questo io».

Il finale di questa opera colpisce profondamente, concentrato in una visione idillica e disperata contemporaneamente: «Rivoli d’acqua piovana (saranno guasti gli scoli nella parte alta della città) confluiscono nel viale, e hanno steso sull’asfalto, giorno dopo giorno, uno strato leggero di terriccio. Poco più di un velo, eppure qualche cosa verdeggia e cresce, e non la solita erbetta municipale; sono piantine selvatiche. Il mercato dei Mercati si cambierà in campagna. Con i ranuncoli, la cicoria in fiore. In tasca tengo, per lui (l’amico Karpinsky, di cui prova nostalgia, l’unico che rimpiange) un pacchetto di gauloises».

Bibliografia

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[1] Morselli  (Guido), scrittore italiano (Bologna 1912 – Varese 1973). Trascurato in vita dall’attenzione degli editori, riuscì a pubblicare solo due saggi, Proust o del sentimento(1943) e Realismo e fantasia (1947); mentre, dopo la tragica morte per suicidio, scoppiò il suo “caso letterario”, che lo segnalò come romanziere di lucida ironia e disincantata intelligenza. Tra i suoi romanzi, qui elencati secondo la data di pubblicazione, Roma senza papa (1974), Contro passato prossimo (1975), Divertimento 1889 (1975), Il comunista (1976), Dissipatio H. G. (1977), Un dramma borghese (1978). A essi va aggiunto, tra i saggi, Fede e critica (1977), imperniato sull’inconciliabilità fra la perfezione di Dio e il male nel mondo. Nel 1987 è apparso, a cura di G. Pontiggia, il suo Diario.

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È vietato riprodurre il presente testo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autrice. La citazione è consentita e, quale riferimento bibliografico, oltre a riportare nome e cognome dell’Autrice, titolo integrale del brano, si dovrà far seguire il riferimento «Nuova Euterpe», n°01/2023 unitamente al link dove l’opera si trova.


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