“Una scrittrice nata. Impressioni allo specchio. La lettura dei molteplici “io” nei libri di Virginia Woolf”. Saggio di Carmen De Stasio

Invisibili tracce percorrono le pagine dei libri a scolpire la forma dei tanti significati. Nell’ariosità di un esser luogo di verità segrete – ma da scoprire là dove avviene il confronto dialettico –, ciascun libro manifesta un’identità rotonda lungo le fasi di un processo creativo, spogliandosi di qualsiasi declinazione lo collochi entro i confini di sequenze di coordinazione e subordinazione, e agendo in favore dell’organica verità di un io fedele a immagini che si trasportano all’esterno al pari di un mosaico da visualizzare in un’incessante, quanto intrepida, formazione.

Senza riserva alcuna, l’orientamento sembra indugiare laddove «le realtà» dei libri allestiscono uno scenario di attraversamento in virtù di una forza che è tanto di compensazione, quanto rivelatrice di un crescendo nel cui riflesso vibra l’eco della tessitura narrativa di Virginia Woolf – unica e irripetibile nel pieno di un’identità dei tanti io confluenti in una scrittura che è specchio personale, stretta in una complicità con quanto all’occhio (in)fermo sulle facciate esterne delle cose è negato; intollerante nei confronti di tutto quanto rimarchi la passività sospesa sulla superficie. 

In occasione dei centoquarant’anni dalla sua nascita (nacque, infatti, nel 1882), è a Virginia Woolf, alla sua semantica dell’essere che dedico quel che mi piace definire un breve viaggio che mi permette di esplorare la tematica assai cara di quel che il libro è, vale a dire, specchio di un io molteplice e variabile; specchio di un io da scrivere a lettere minuscole per sottrarsi al predominio della parola «Io» e per l’aridità che provoca la sua ombra (…)1. Al centro di questa tessitura è l’intimità di una coscienza che dà voce alla particolare abilità narrativa di Virginia Woolf, e che ancor oggi invita il lettore a lasciarsi sorprendere dalla (…) illusione che non siamo incatenati in una mente sola, ma che possiamo assumere brevemente, per qualche minuto, i corpi e le menti degli altri (…).2 Nell’entrare in un contatto diretto con i mondi unitari dei tanti io che si riflettono nei suoi libri, ci viene altresì concessa l’occasione di penetrare il circuito delle elaborazioni immaginative calibrate in una realtà che, infine, diventa a noi familiare. Che sia questo uno degli obiettivi della sua creatività narrativa?

Avida lettrice ella stessa – coinvolta in prima persona nell’esercizio di un’intuizione che le permette di offrire qualcosa che non sia effimero al lettore affinché possa entrare in familiarità con l’intera forma del libro – Virginia Woolf è sempre presente ad accompagnare la lettura-esplorazione dei vari aspetti correnti delle sue opere letterarie, aspetti che, esattamente dai suoi scritti «altri» (e tutt’altro che marginali) – biografie, diari, lettere, saggi –, promanano a modellare i suoi pensieri.

«Esiste una qualche qualità del pensiero che può esser resa visibile senza l’ausilio delle parole? Essa deve possedere la rapidità e l’indolenza; saettare con immediatezza ed evanescenti perifrasi. Ma possiede anche, soprattutto nei momenti d’emozione, la forza di creare un’immagine, la necessità di scaricare il fardello sulle spalle di un altro; di permettere ad un’idea di filare via al suo fianco. La rappresentazione del pensiero è, per qualche ragione, più bella, più accessibile, più disponibile del pensiero stesso.3»

Seguendo questa esplicita linea di condotta, ci avviamo, quindi, alla ricerca dei dettagli segreti dai quali la forma risale a farsi preambolo di un mosaico delle relazioni che alla scrittura woolfiana danno alito di vita; scopriamo come le sue operazioni letterarie siano specchio delle esperienze di un vivere unico e, ancora, configurino la parabola crescente delle sonorità che una coscienza vigile costruisce a partire da un progetto cadenzato da tempi intensamente individuali, nei quali le cose vivono la loro interezza, refrattarie nei confronti di una letteratura arroccata a replicare gestualità plastiche, quanto impregnate di un’inautenticità che ne marca l’egoistico isolamento. Rotondo e pertinente quanto la stessa Virginia Woolf scrive:

(…) mi rendo conto con maggior chiarezza –– come la vita di ciascuno sia un mosaico di pezzi e come per capire una persona occorra considerare come un pezzo sia compresso e l’altro incavato e un terzo si espanda, e nessuno sia realmente isolato; (…)4

L’uscita dal cerchio delle convenzioni sta alla base di quella che può essere identificata come l’idea che la Woolf mette in pratica con uno stile narrativo che le è di aiuto nel sottrarsi a un controllo esterno che spinge a regolare e, per questa via, a logorare la coscienza di un io versato al continuo emanciparsi da quel che altri non è che uno schema prevedibile e che ai suoi occhi appare indifferente a qualsiasi suggestione, a qualsiasi tentativo di affrontare l’ardito compito di penetrare la superficie (La mente umana è tanto suggestionabile che la ripetizione di questo unico termine – Virginia Woolf si riferisce al romanzo – crea un danno considerevole. Il lettore arriva a pensare che, siccome tutte queste varianti di libri hanno lo stesso nome, devono avere anche la stessa natura5).

Ci troviamo, quindi, al cospetto di una vera e propria rivoluzione culturale che affida ai libri il delicato ruolo svolto dalle parole: di fatto, così come le parole elaborano cerchi vibranti di emozioni, i libri-realtà scenica della Woolf modellano le fasi dell’esistere sollevandole dal peso di qualcosa di permanente e, al contempo, di effimero sospeso nell’esclusiva contrazione frontale che lo specchio dell’opinione altrui rimanda6. Un artifizio, questo, a danno di un sentirsi parte della realtà, se non, addirittura, un voltar le spalle alla vita, a cui la Woolf risponde propendendo per un’immagine panoramica, nella quale l’unione di detto e di non detto delle cose traccia il territorio chiaroscuro di concretezza e creatività in quello che è, per lei, specchio narrativo di un’identità scomponibile:

«Supponiamo che lo specchio si infranga, l’immagine scompaia, e che non ci sia più la romantica immagine tutta circondata dalla profondità di verdi foreste, ma rimanga solo quel guscio di persona che gli altri vedono – che mondo senz’aria, piatto, nudo, banale sarebbe quello! Un mondo dove non poter vivere. (…) E i romanzieri in futuro si renderanno conto sempre di più dell’importanza di queste immagini riflesse, perché naturalmente non c’è una sola immagine, ma un numero quasi infinito; quelle sono le profondità che esploreranno, quelli i fantasmi che inseguiranno, lasciando sempre più fuori dalle loro storie la descrizione della realtà sempre più fuori dalle proprie storie, dandone per scontato la conoscenza, (…)7»

Da quest’immagine di insieme è possibile trarre un’idea quasi pionieristica, secondo la quale il libro crea tutto all’interno di sé8 agendo su un piano che, proattivo alla scomposizione-ricomposizione, rinnova la genesi narrativa delle cose in una visione che ne coglie l’interezza affidandosi agli slanci possibili di una (auto)coscienza lungo l’essenzialità dell’oltremente, lungo, cioè, quel territorio che si forma a partire dalle cose (il «libro stesso» – avverte la Woolf non è forma visibile, ma emozione sensibile, e quanto più intense sono le sensazioni dell’autore, tanto più esatta, priva di scivoloni o crepe è la loro espressione verbale9). A voler guardare fino in fondo, ciascuna operazione narrativa è, di fatto, assimilabile a una piccola, ma decisa rivoluzione adottata ai fini di uno stravolgimento dei ruoli. Ed è, infatti, uno stravolgimento che permette alla Woolf di individuare l’equilibrio idoneo a rendere l’unitarietà di due mondi (beninteso, quei mondi che la letteratura allineata ai soli fatti distingue su fronti oppositivi: il mondo della ragionevolezza da una parte e il mondo della sensibilità dall’altra). Nella tessitura woolfiana i due mondi sono tutt’altro che sovrapponibili: al contrario, essi aderiscono continuamente nel reinventare una coerenza del tutto personale e che si manifesta in un ordine sempre nuovo di parole impresse di significati. In concomitanza, nella tessitura narrativa woolfiana le due forme mondane provvedono all’architettura di un territorio in persistente costruzione, talora incedendo a piccoli passi – dove vige il rigoglio di una meditazione che rende prominente l’invisibile e rigenera l’ambiente di bisbigli e di ricordi che sopraggiungono con fervida immaginazione; talaltra, amplificandosi fino a sollecitare la correlazione concreta di spazi incisi da segrete intonazioni. A trarne vantaggio non è la sola libertà d’espressione, quanto lo scenario che permette di recuperare nei libri lo specchio di un io di volta in volta intero (dove manca una mescolanza di questo genere, l’intelletto sembra predominare e le altre facoltà mentali indurirsi e isterilirsi10).

Ancora una volta, il pensiero estetico di Virginia Woolf appare fondante all’idea di un processo che ha svolgimento sulla pagina in una varietà di cromie, di relazioni mai replicabili, quanto di inattese divergenze, dalle quali ricevere una visione allo specchio – che, pertanto, – è immensamente importante, perché carica la vitalità 11. Ed è proprio questa distintività a restituire l’effigie di un’artista della parola e che tale è nella misura in cui, sottraendosi a qualsiasi forma di corruttibile dis-memoria, si lascia cogliere nell’atto di comporre un lavoro che è incontro e che dell’io rimanda la metonimia di complete sensibilità (Il nostro vero io è questo che si trova sul marciapiede, in gennaio, o è quello che si affaccia al balcone, in giugno? Sono qui, o sono là? O forse la nostra vera personalità non è né questa né quella, né qui né là, ma qualcosa di così vario e vagabondo che soltanto quando diamo libero sfogo ai suoi desideri e le permettiamo di fare ciò che vuole senza alcun freno, siamo finalmente noi stessi?12). Non solo: nell’universo woolfiano la visione della realtà vibra di arte nel momento in cui la capacità comunicativa rigenera un quadro schietto di quel che accade quando all’azione del guardare si sostituisce un occhio che «non si accontenta» di ristagnare nell’abitudine (L’occhio non è un minatore – ella scrive – non è un sommozzatore, non è un cercatore di tesori sepolti. Ci trasporta dolcemente sulla corrente, si riposa, si sofferma, forse il cervello dorme mentre guarda13). Evidente come la stessa Virginia Woolf viva intimamente la realtà in tutte le intonazioni e le traduca poi con un linguaggio nel quale convergono tanto la parola-pensiero divergente, quanto la consistenza e l’emozione in un intreccio che, innanzitutto, conferma l’azione del leggere le cose prima di procedere al loro cruciale smontaggio e riposizionamento conseguente, tale che l’esperienza del libro echeggi di una coralità necessaria a rendere accessibili le stanze metaforiche che compongono la struttura mentale di una realtà che è sì flessibile, ma altresì duratura:

«(…) noi siamo urne sigillate galleggianti su quella che per convenienza chiameremo la realtà; in certi momenti, senza alcun motivo, senza sforzo alcuno, si apre una fenditura nel sigillo; e la realtà ci invade; cioè una scena – e queste non sopravviverebbero intatte a così tanti rovinosi anni se non fossero fatte di una sostanza durevole; questa è la prova della loro “realtà”. È questa suscettibilità ad accogliere scene l’origine del mio impulso a scrivere? (…) S’intende che io ho coltivato questa facoltà, perché in tutti i miei scritti (romanzi, critica, biografie) ho quasi sempre dovuto costruire delle scene; quando scrivo di una persona devo trovare la scena che meglio rappresenta la sua vita; e quando scrivo di un libro devo trovare la scena rappresentativa nei versi o nel racconto. O forse non si tratta della stessa facoltà? 14»

È assai comprensibile, a questo punto, il modo in cui il libro diventi artefice primario di effetti simili ai bisbigli prodotti da fotografie strappate di getto e ricomposte seguendo un ordine che ha origine da un’intuizione, vieppiù aprendo le proprie stanze metaforiche alla piena consapevolezza delle cadenze della realtà. A tali cadenze Virginia Woolf non riserva né il distacco, né l’estraneità, né, tantomeno, ad esse affida un ruolo secondario. Su questo versante ci spingiamo ad interpretare la sensibilità con cui la Woolf penetra i meandri significativi di una vita nel suo incessante scorrere, per poi unificarne i bisbigli in una narrazione poetica:

«La vita è quello che si legge negli occhi della gente; la vita è ciò che essi imparano, e, dopo averlo imparato, mai cessano, per quanto tentino di nasconderlo, di essere consapevoli – di cosa? Che la vita è così, pare.15»

Quel che avviene lascia trapelare la profondità di un segreto codice che dà forma a una vera e propria sintesi poetica. Una sintesi conclamata da simultaneità – come tale è la poesia, nella quale le immagini si susseguono incessantemente, senza ordine e incontrollate16 – nel momento in cui a un allineamento di fatti per sequenze che infila, uno dietro l’altro, il prima, un egoistico durante e un qualsiasi fumoso dopo, replica con una diversa direzione anche nell’uso puntuale e rigorosamente personale della punteggiatura, che pure interviene a tradurre il ritmo delle emozioni su un piano lirico di ombre e mezze luci .17 Così lo scrivere di Virginia Woolf si associa a un abitare le intimità della vita e si diffonde tra le pagine dei libri: questo il territorio del confronto e questo, ancora, è lo spazio unitario di una narrazione che la vede una e nuova di volta in volta (Come si può imparare a scrivere, se si scrive soltanto sulla stessa persona?18). Parimenti, dai libri-evento scaturisce un’immagine che non si posiziona mai a definirsi, né a concludersi in un guscio solitario e sono gli stessi libri a guidare la svolta: non già «nello» specchio i libri-creatura di Virginia Woolf si trattengono, giacché, intrappolati nell’inquadratura del riflesso, tenderebbero a rimpicciolirsi in una postura contraffatta, esaurendo, finanche, il valore del dire in un oblio che nella frontalità si protrarrebbe indistinto. Su un altro versante è il comportamento che anima i libri-specchio dell’io woolfiano: rimando all’autenticità di un continuo iniziare, a una varietà di voci estensibili in una compiutezza che evoca la perenne impressione che le cose procedano contemporaneamente a livelli differenti.19

NOTE

* Il titolo del presente saggio è ripreso da una definizione che Virginia Woolf attribuisce a se stessa nella lettera indirizzata alla sorella Vanessa in data 19 aprile 1932:

(…) questa lettera, anche se è una lettera terribile per una scrittrice nata – e non puoi negare che io lo sia – non una brava scrittrice ma una scrittrice nata – (…) è lunga e appassionata, e piena delle più delicate sebbene tacite emozioni – ma non sono proprio questi – quelli taciti – i sentimenti più delicati?

Da Lettere 2573-2585 – Aprile-maggio 1932, in «Falce di Luna – Lettere 1932-1935» (1978), a cura di N. Nicolson e J. Trautmann, Einaudi, Torino, 2002, p. 63

  1. V. Woolf, Una stanza tutta per sé (1929), Newton Compton, Roma, 1993, p. 85
  2. V. Woolf, A zonzo per le vie di Londra (saggio pubblicato su Yale Review, 1927, e raccolto nel volume postumo The Death of the Moth and Other Essays, 1942), in «Sono una snob? (1936) e altri saggi», Piano B edizioni, Prato, 2010, p. 53
  3. V. Woolf, Sul Cinema (pubblicato sulla rivista Arts, 1926; successivamente su Nation and Aetheneum, New Republic), a cura di S. Matetich, Mimesis, Milano, 2012, p. 13
  4. V. Woolf, Momenti di essere scritti autobiografici (1976, pubblicazione postuma), La Tartaruga Edizioni, Baldini & Castoldi S.p.A., Milano, 2003, p. 38
  5. V. Woolf, Che cos’è un romanzo? (pubblicato in Weekly Dispatch, 27 marzo, 1927), in «Voltando pagina – saggi 1904-1941» a cura di L. Rampello, il Saggiatore, Milano, 2011, p. 243
  6. Cfr. V. Woolf, The Common Reader (1932), Vol. II, Vintage Classics, London, 2003, p. 89:

Nothing exists in itself. (…) All value depends upon somebody else’s opinion. For it is the essence of this philosophy that things have no independent existence, but live only in the eyes of other people. It is a looking-glass world, this, to which we climb so slowly; and its prizes are all reflections.

Traduzione a cura dell’autrice del presente saggio: Nulla esiste in sé. (…) Tutti i valori dipendono dall’opinione di qualcun altro. Questa è, pertanto, l’essenza di una filosofia secondo la quale le cose non hanno una propria esistenza, ma vivono esclusivamente negli occhi degli altri. Si tratta di un mondo a specchio sul quale ci arrampichiamo; e tutti i riconoscimenti non sono altro che immagini riflesse.

  1. V. Woolf, Il segno sul muro (1921) in «Tutti i racconti di Virginia Woolf», a cura di S. Dick, La Tartaruga, Milano, 1988, p. 88
  2. V. Woolf, Lettera a J. E. Blanche, 20 agosto 1927, in «Spegnere le luci e guardare il mondo di tanto in tanto – Riflessioni sulla scrittura», a cura di F. Sabatini, Minimum Fax, Roma, 2017, p. 49
  3. V. Woolf, Sul rileggere i romanzi in «Genio e inchiostro – le più belle recensioni per il Times Literary Supplement» (2019), a cura e traduzione di S. Sullam, Harper Collins, Milano, 2021, p. 143
  4. V. Woolf, Una stanza tutta per sé, op.cit., p. 87
  5. Ibi, p. 44
  6. V. Woolf, A zonzo per le vie di Londra, in «Tutti i racconti di Virginia Woolf», op. cit., p. 45
  7. Ibi, p. 37
  8. V. Woolf, Momenti di Essere, op. cit, p. 182
  9. V. Woolf, Un romanzo non scritto (1919) in «Tutti i racconti di Virginia Woolf», op.cit., p. 122
  10. V. Woolf, Lettera a Ethel Smyth, lunedì 24 settembre 1934, in «Falce di Luna – Lettere 1932-1935» (1978), a cura di N. Nicolson e J. Trautmann, Einaudi, Torino, 2002, p. 417
  11. V. Woolf, Lettera a Ethel Smyth, lunedì 17 dicembre 1934, in «Falce di Luna», op. cit., p. 442
  12. V. Woolf, Lettera a un giovane poeta, in «Voltando pagina», op. cit., p. 377
  13. V. Woolf, Lettera a Stephen Spender, 10 luglio 1934, in «Falce di Luna – Lettere 1932-1935», op. cit., p. 394

BIBLIOGRAFIA

  • V. Woolf, «Tutti i racconti di Virginia Woolf», a cura di S. Dick, La Tartaruga, Milano, 1988
  • V. Woolf, Una stanza tutta per sé (1929), Newton, Roma, 1993
  • V. Woolf, «Falce di Luna – Lettere 1932-1935» (1978), a cura di N. Nicolson e J. Trautmann, Einaudi, Torino, 2002
  • V. Woolf, The Common Reader (1932), Vol. I – II, Vintage Classics, London, 2003
  • V. Woolf, Momenti di essere – scritti autobiografici (1976, pubblicazione postuma), La Tartaruga Edizioni, Baldini & Castoldi S.p.A., Milano, 2003
  • V. Woolf, «Sono una snob? (1936) e altri saggi», Piano B edizioni, Prato, 2010
  • V. Woolf, «Voltando pagina – saggi 1904-1941», a cura di L. Rampello, il Saggiatore, Milano, 2011
  • V. Woolf, Sul cinema (1926), a cura di S. Matetich, Mimesis Edizioni, Milano, 2012
  • V. Woolf, «Spegnere le luci e guardare il mondo di tanto in tanto – Riflessioni sulla scrittura» – a cura di F. Sabatini, Minimum Fax, Roma, 2017
  • V. Woolf, Non saper il greco (1925), traduzione di G. Maugeri, Garzanti, Milano, 2018
  • V. Woolf, Tutto ciò che vi devo – Lettere alle amiche, L’Orma, Roma, 2018
  • V. Woolf, «Genio e inchiostro – le più belle recensioni per il Times Literary Supplement» (2019) – cura e traduzione di S. Sullam, Harper Collins, Milano, 2021
  • V. Woolf, Le tre ghinee (1937-1938), Feltrinelli, Milano, 2021
  • D. Kotnik, Virginia Woolf – La Minerva di Bloomsbury, Rusconi, Milano, 1999
  • T. Marino, La scrittura visiva di Virginia Woolf – Diari, saggi, romanzi, Edizioni Nuova Cultura, Roma, 2019
  • L. Rampello, Il canto del mondo reale – Virginia Woolf. La vita nella scrittura, il Saggiatore, Milano, 2005
  • L. Woolf, La morte di Virginia, Lindau, Torino, 2015
  • P. Zaccaria, Virginia Woolf – Trama e ordito di una scrittura, Dedalo Libri, Bari, 1980

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È vietato riprodurre il presente testo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autrice. La citazione è consentita e, quale riferimento bibliografico, oltre a riportare nome e cognome dell’Autrice, titolo integrale del brano, si dovrà far seguire il riferimento «Nuova Euterpe», n°01/2023 unitamente al link dove l’opera si trova.


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