C’è un sottile tessuto che riunisce libri e scrittori nel sistema della letteratura e struttura rapporti particolari e insostituibili. Il fatto si è che ogni scrittore crea i suoi precursori e la sua opera finisce col modificare la concezione del passato, come modificherà il futuro, diceva Borges. A volte questa relazione tra gli scrittori è tanto rarefatta che solo chi ha l’occhio abituato per consuetudine alla lettura riesce a coglierla, a volte invece è esplicita, tal altra è una vera e propria drammatizzazione come ne “Il mistero di Anna” di Simona Lo Iacono ed. Neri Pozza. Questo interessante romanzo della scrittrice siracusana racconta della bambina Cannavò Anna, poetica senza sapere cosa sia la poesia. Innamorata di tutte le parole, che la schiudono al mistero della felicità, che casualmente incontra la scrittrice Anna Maria Ortese . La storia è raccontata attraverso il diario di Anna e la corrispondenza tra R. e Anna Maria Ortese. L’occasione dell’incontro è un concorso scolastico che offre al vincitore una settimana a Milano in casa della scrittrice Anna Maria Ortese. Cannavò Anna vince contro le aspettative di tutti, ha 11 anni, frequenta la quinta elementare, ed è povera, si è procurata i soldi del francobollo per spedire la lettera del concorso facendo le pulizie in chiesa. L’incontro con la scrittrice sarà per lei un itinerario di formazione e di riscatto. Le scelte tematiche di Simona Lo Iacono, il suo insistere sulla responsabilità civile dello scrittore, sull’emarginazione, sulla sua innata tensione poetica trovano eco nell’ opera della Ortese, in particolare in, Il mare non bagna Napoli, soprattutto nel racconto Il silenzio della ragione , e nel romanzo L’iguana, esplicitamente citate ed esaminate ne “ Il mistero di Anna”, come necessarie. Il racconto Il silenzio della ragione individua i limiti degli scrittori napoletani, la loro rinuncia ad allargare lo sguardo oltre se stessi e le proprie ambizioni, pur di raggiungere il successo, e nello stesso tempo prospetta una strada diversa più dura, ma più onesta, quella percorsa con sacrificio dalla Ortese. L’iguana, che per la scelta di una protagonista inusuale dà alla storia un andamento quasi di favola, attesta l’ impegno della scrittrice per la giustizia, la sua volontà di riscattare le diseguaglianze del mondo, i poveri, i dimenticati. Il romanzo segna il superamento del realismo, a cui pure A.M. Ortese aveva aderito, incapace di cogliere la complessità del reale… lo stesso creato, dice la scrittrice in un’intervista , quand’anche fosse analizzabile in tutti i suoi strati, non risulterebbe realtà, ma pura immaginazione… L’iguana Estrellita come Anna ha l’impacciata incoscienza delle ambizioni del mondo. Non era forse una dimensione più grande, più profonda ?Si chiede la Ortese. In questo pensiero si riconosce Simona Lo Iacono nella Nota dell’autrice , alla fine del libro. La piccola Anna, personaggio d’invenzione, è il punto di contatto tra le due scrittrici. Potremmo dire il mezzo, lo specchio. Entrambe vedono riflesso nella bambina il momento aurorale ed incontaminato della creazione artistica e in qualche modo come dovrebbe essere uno scrittore. Dice esplicitamente la Ortese a proposito di Anna: Rivedo in lei una parte lontana di me. La più pura. La più povera, e per questo la più ricca. Al diario di Anna s’intreccia la corrispondenza tra la Ortese e R. , una donna colta che la scrittrice ha conosciuto casualmente a Palermo durante il soggiorno alla pensione Aurora Svizzera . Le lettere ricostruiscono aspetti della biografia e dell’opera della Ortese che rendono ancora più esplicita la sintonia Lo Iacono – Anna/ Ortese –Estrellita. L’intertestualità non costituisce una diminuzione della qualità della scrittura e dell’invenzione narrativa di Simona Lo Iacono, ma piuttosto manifesta il loro chiarirsi ed accrescersi attraverso il rispecchiamento in una scrittrice sentita affine. Fin qui i romanzi della Lo Iacono hanno mostrato attenzione partecipe ed affettuosa alla condizione dei semplici, degli emarginati, dei diversi. Adesso ne “ Il mistero di Anna” questa condizione diventa denuncia esplicita e programma di scrittura: Più sei periferico e più devi capire , dice la Ortese. Vuoi vedere che un po’ periferica lo sono anche io? Si chiede Anna. Se ami le parole devi andare a cercarle proprio dove nascono, e anche là dove mancano, conclude la Ortese_/Lo Iacono.
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Se il sé1 è la mente e il sé2 il corpo, facciamo sì che il sé1, così egocentrico, dia meno informazioni possibili al sé2, così sensibile. E lasciamo andare, senza sforzo. Fidandoci.
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L’Io può essere avventura di piacere, di paura, di aspettativa, di amicizia, di speranza, di scoperta, di gioia, di tristezza, di disgusto, di sorpresa, di rabbia, di fiducia, ma senza confronto rimane sempre un io minuscolo.
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Se ingerissimo, pezzetto per pezzetto, ogni vetro rotto della nostra immagine, faremmo cento libri di consapevolezza.
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cerchio che serve a tornare su se stessi per mutare
saltare il fosso che divide noi da noi
nell’illusione che sia possibile esserci
per non esserci un’infinità di volte
per sperare di esserci almeno una,
prima che si esauriscano le possibilità ipotetiche di riuscirci.
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Hegel ha sognato una realtà in sé per sé, io sognavo una realtà con me e per me.
Dove gli altri non hanno luogo, perché non ci sono (GUIDO MORSELLI)
I libri rispecchiano sempre l’autore, qualsiasi sia il genere letterario in cui si inseriscono. Giustamente Cesare Pavese affermava: «Ogni autentico scrittore è splendidamente monotono, in quanto nelle sue pagine vige uno stampo ricorrente, una legge formale di fantasia, che trasforma il più diverso materiale in figure e in situazioni che sono sempre press’a poco le stesse». In modo esemplare questo avviene in un autore geniale come Guido Morselli[1] che ne è autorevolmente consapevole (basta leggere le sue prefazioni, i paratesti ai saggi e ai romanzi autoriali oltre che i suoi romanzi) in cui narratore e protagonista coincidono, facendo del narratore-protagonista, onnipresente nell’opera, il proprio alter-ego, in un dialogo dell’io con se stesso, che si costruisce per mezzo della scrittura e la sfrutta mediandola, come un Giano bifronte, in una prospettiva drammaticamente solipsistica, dove l’autobiografia implicita non è solo solipsismo, ma io straripante, oggetto di una vera e propria narrazione che assume una cifra del tutto particolare, di dialogo con personaggi scomparsi, specialmente nell’ultimo suo romanzo: Dissipatio H.G.( l’ultimo romanzo prima del suicidio dell’Autore). Tutta la produzione di Morselli del resto – dai saggi ai racconti, ai romanzi, al Diario – vanta una componente fortemente legata e condizionata al vissuto personale dell’autore varesino.
Dissipatio H.G. è un’opera originalmente e definitivamente autobiografica, che rispecchia l’Autore al punto tale che il suo protagonista, che parla in prima persona, finisce con l’indentificarsi con l’autore, e non lascia spazio a fraintendimenti. È insieme una cronaca memorialistica e un denso resoconto di un passato incancellabile, fallimentare, che continua a riaffiorare ossessivamente. Il romanzo venne scritto tra il 1972 e ’73 – Dissipatio Humani Generis è il titolo desunto dal tardo-latino Giambico – è composto da venti capitoli brevi e composto nella forma di un quadernetto di appunti che occupano la durata di un mese (giugno) circa. Non ha trama. I vari personaggi vivono solo in correlazione con l’autore. Non avendo genere non è etichettabile. È figlio di una mente alta e altra mai pacificamente catalogabile. Può essere questo il motivo principale per il quale è stato clamorosamente rifiutato dagli editori, salvo essere ripetutamente omaggiato dopo la morte dell’Autore.
Due sono i tempi delle azioni. La prima è la scoperta che il mondo è vuoto dalla presenza degli umani, la seconda dalla scoperta devastante che il vuoto dei altri è l’altra faccia del vuoto dentro il proprio io. In ognuno di questi tempi assisteremo al tentativo del narratore di suicidarsi, il suicidio infatti, come per la storia umana di Morselli, è il centro dell’opera: «gli uomini ubbidiscono alla chiamata della morte. Io, per esempio, non ho ubbidito. Ero refrattario alle chiamate, evidentemente; virtù o viltà, sopravvivo» fa dire all’io narrante ancora indeciso.
Il protagonista di Dissipatio H.G., uomo lucidissimo, ironico, ipocondriaco, e soprattutto ‘fobantropo’, attirato da un feroce solipsismo, decide – già all’inizio del racconto – di annegarsi in uno strano laghetto in fondo a una caverna, in montagna. Ma all’ultimo momento cambia idea e torna indietro. Il genere umano proprio in quel breve intervallo, è scomparso, volatilizzato. Per il resto tutto è rimasto intatto. Così paradossalmente l’umanità è ora rappresentata da un singolo che era sul punto di abbandonarla e che comunque non si sente adatto a rappresentare alcunché; neppure a tratti se stesso.
La volontà di suicidio del protagonista che desidera annegarsi in un laghetto è fortemente sociale ed è legata alla collettività, perché a sparire non sarà lui, che cambierà idea e non si getterà nel lago, ma l’intera umanità che evapora nel nulla, mentre lui rimane l’ultimo essere umano presente sulla faccia della terra, trovandosi un mondo silenziosamente mutato, senza nessun evento catastrofico. L’uomo che voleva morire è l’unico a sopravvivere. È l’elaborazione narrativa di una fantasia di angoscia – la scomparsa del genere umano – «Io sono ormai l’Umanità, io sono la Società. Nessuno dispone di me, io dispongo di tutto. Non c’è più che l’Io, e l’Io non è più che mio. Sono io».
Morselli espone e indaga la triplice liberazione: dall’uomo, dal tempo e dalla proprietà. La scomparsa dell’uomo dalla faccia della terra si trascina dietro la scomparsa del concetto del tempo (chiaro elemento soggettivo) e della proprietà, con conseguente fine delle guerre e delle distruzioni. Cosa resta dunque dopo la scomparsa del genere umano? Rimane una natura che riavrà finalmente se stessa. La fine dell’uomo non è affatto la fine del mondo.
«La fine del mondo? Uno degli scherzi dell’antropocentrismo: descrivere la fine della specie come implicante la morte della natura vegetale e animale, la fine stessa della Terra. La caduta dei cieli. Non esiste escatologia che non consideri la permanenza dell’uomo come essenziale alla permanenza delle cose. Si ammette che le cose possano cominciare prima, ma non che possano finire dopo di noi. […] Andiamo, sapienti e presuntuosi, vi davate troppa importanza. Il mondo non è mai stato così vivo, come oggi che una certa razza di bipedi ha smesso di frequentarlo. Non è mai stato così pulito, luccicante, allegro».
Le caratteristiche del protagonista sono quelle di Morselli-uomo. Ama la solitudine, è in fuga da se stesso e dagli altri, vive, ecologista ante-litteram, appartato e solo in una dimora alpina nel cuore privilegiato dei luoghi morselliani, la Svizzera, di cui pur disprezza l’opulenza borghese e i suoi rituali perbenistici, incapace di voli pindarici fantastici e dell’illusione del meraviglioso, consapevole del suo lucido raziocinare nichilistico, autoironico, ma condannato alla mediocrità.
Comincia allora un appassionante monologo, sullo sfondo della solitudine assoluta e di un silenzio rotto soltanto da qualche voce di animale o dal ronzio di macchine che continuano a funzionare. Ed è un monologo che presto si trasforma in un dialogo con tutti i morti, tenuto da un unico vivo che a momenti pensa di essere anch’egli morto. Riaffiorano spezzoni di ricordi, particolari sepolti riemergono come decisivi e, mentre i pensieri si affollano, cerca dappertutto un qualche altro sopravvissuto, vaga tra luoghi odiati e amati, tra le sue montagne e Crisopoli (chiaramente Zurigo). Tutto è uguale, eppure tutto è per sempre trasformato.
«Eppure il silenzio gravava e io lo registravo con un senso diverso da quello uditivo, forse emozionale, forse riflesso e ragionante. Ciò che fa il silenzio e il suo contrario, in ultima analisi è la presenza umana, gradita o sgradita; e la sua mancanza. Nulla le sostituisce, in questo loro effetto. E il silenzio da assenza umana, mi accorgevo, è un silenzio che non scorre. Si accumula». Una summa di sé. Una continua ricerca e ridefinizione che il narratore dà di se stesso e della relazione con gli altri che non ci sono più. «Il pensiero è stato quasi sempre solitario, fine a se stesso, asociale. Secreto da monadi senza finestre, o che non si curavano di mettersi alla finestra. L’idolatria della comunicazione era un vizio recente. E la società, dopotutto, era semplicemente una cattiva abitudine».
Non può comunicare, solo scrivere. Scrivere è diventato nella struttura che regge il romanzo la unica comunicazione con il proprio sé: l’altro non esiste nel romanzo, come non è presente nella vita dell’autore.
«Lo faccio, e sono contento di farlo, soltanto per me. Io sono il destinatario, non il provvisorio consegnatario». Lo spazio di scrittura quindi è senza interlocutori, come è avvenuto del resto nella vita di Morselli, in attesa di essere riconosciuto come romanziere, scrittore, l’unico superstite che attende che qualche fantasma si renda visibile. Eppure Morselli sa per esperienza che narrare è una finzione, un falso, e che ormai non è rimasto più niente da narrare… è consapevole che tutto ciò che un narratore narra non sono altro che preconcetti, le proprie ubbie, le proprie emozioni, i propri ricordi, perché «l’esserci ha una tendenza essenziale alla vicinanza». «Oggi noi non possiamo narrare che tutto ciò che ci è «vicino» e quindi incomprensibile; ciò che è «lontano» ormai non fa più parte del demanio del «romanzo» è desiderio irrealizzabile». Morselli ci fa attraversare con mirabile sottigliezza tutte le reazioni del sopravvissuto, che vanno da una sinistra ironia e, quasi, euforia, alla «superbia solipsistica», finché a poco a poco si fa strada in lui la paura, un’angoscia senza confini.
«Io sopravvivo. Dunque sono stato prescelto, o sono stato escluso. Niente caso: volontà. Che spetta a me interpretare, questo sì. Concluderò che sono il prescelto, se suppongo che nella notte del 2 giugno l’umanità ha meritato di finire, e la dissipatio è stata un castigo. Concluderò che sono l’escluso se suppongo che è stata un mistero glorioso, assunzione all’empireo, angelicazione della Specie, eccetera. È un’alternativa assoluta, ma mi si concede di scegliere. Io, l’eletto o il dannato. Con la curiosa caratteristica che sta in me eleggermi o dannarmi. E bisognerà che mi decida».
«La memoria involontaria non ha altro, e questi ricordi vi fluttuano insistenti e vaghi. Relitti inconsistenti, e ormai reliquie. Un lungo panico, in principio. E poi, ma tramontata subito, incredulità, e poi di nuovo paura. Adesso l’adattamento».
«Se c’è stata l’umanità e ora ci sono io, solo io, decido di assumermi i compiti che ‘loro’ hanno dovuto abbandonare. Che cosa facevano ‘loro’ in sostanza? Che cosa facevano? Beh, è abbastanza semplice: agivano in vista di utilità. Inoltre, ragionavano sulle cose che si vedevano intorno, o che credevano di vedersi dentro. Poi, le rappresentavano, parole, segni, suoni. Altro non facevano. Sarò un riduttivo (un semplificatore), ma ho idea di non avere tralasciato nulla. Continuarli, o sostituirli, non è un’impresa da farmi tremare, non farebbe tremare nessuno. In fin dei conti non avevano troppe pretese, né ambizioni».
E, mentre il delirio corrompe ogni residua certezza, il protagonista si abbandona a cercare le improbabili tracce di un amico dimenticato, unico ricordo di rapporto reale che gli resti della sua vita precedente. C’è qualcosa di disperato e, insieme di sereno in queste pagine, fra le più belle di tutto Morselli – e certo le sole in cui accetti di far trasparire la sua dura pena personale. E c’è, alla fine, una grande immagine in cui convivono, pacificati, tutto e il contrario di tutto: nelle strade deserte di Crisopoli-Zurigo, coperte ormai da uno strato leggero di terriccio, crescono piantine selvatiche. Nel Mercato dei Mercati spuntano, ignari, i ranuncoli e la cicoria. E l’ultimo uomo, che già era stato del tutto solitario fra gli uomini, siede e aspetta.
«Fatemi morire, nel bene o nel male li devo raggiungere. Non ero diverso da loro, mi assomigliavano tutti. Ignoranza e superbia incluse» dichiara il disagio personale del non-riconoscimento, del vuoto: «È che sono solo. Il mondo sono io, e io sono stanco di questo mondo, di questo io».
Il finale di questa opera colpisce profondamente, concentrato in una visione idillica e disperata contemporaneamente: «Rivoli d’acqua piovana (saranno guasti gli scoli nella parte alta della città) confluiscono nel viale, e hanno steso sull’asfalto, giorno dopo giorno, uno strato leggero di terriccio. Poco più di un velo, eppure qualche cosa verdeggia e cresce, e non la solita erbetta municipale; sono piantine selvatiche. Il mercato dei Mercati si cambierà in campagna. Con i ranuncoli, la cicoria in fiore. In tasca tengo, per lui (l’amico Karpinsky, di cui prova nostalgia, l’unico che rimpiange) un pacchetto di gauloises».
Bibliografia
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[1] Morselli (Guido), scrittore italiano (Bologna 1912 – Varese 1973). Trascurato in vita dall’attenzione degli editori, riuscì a pubblicare solo due saggi, Proust o del sentimento(1943) e Realismo e fantasia (1947); mentre, dopo la tragica morte per suicidio, scoppiò il suo “caso letterario”, che lo segnalò come romanziere di lucida ironia e disincantata intelligenza. Tra i suoi romanzi, qui elencati secondo la data di pubblicazione, Roma senza papa (1974), Contro passato prossimo (1975), Divertimento 1889 (1975), Il comunista (1976), Dissipatio H. G. (1977), Un dramma borghese (1978). A essi va aggiunto, tra i saggi, Fede e critica (1977), imperniato sull’inconciliabilità fra la perfezione di Dio e il male nel mondo. Nel 1987 è apparso, a cura di G. Pontiggia, il suo Diario.
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È vietato riprodurre il presente testo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autrice. La citazione è consentita e, quale riferimento bibliografico, oltre a riportare nome e cognome dell’Autrice, titolo integrale del brano, si dovrà far seguire il riferimento «Nuova Euterpe», n°01/2023 unitamente al link dove l’opera si trova.
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Il pessimismo che permea tutta la concezione che ebbe Luigi Pirandello della vita, si fonda su un’originale visuale della nostra esistenza. L’uomo è costretto a vivere condizionato dal suo ambiente, dalle sue abitudini, dalla sua educazione. Per cui l’uomo, secondo Pirandello, deve controllare i suoi interessi, dominare i suoi impulsi e i propri desideri fino a vivere interpretando una parte che gli è stata assegnata. Se cerca di uscire da questa finzione, l’uomo si trova in un’altra realtà diversa dalla prima, ma ugualmente fittizia e del tutto falsa; è costretto ad assumere una maschera dietro la quale deve nascondere, anche se stesso, la propria identità. Identità che in sostanza muta di momento in momento, per cui l’individuo non può essere compreso dagli altri per quello che è effettivamente e, paradossalmente, non può essere compreso nemmeno da se stesso. Infatti, ciascuno di noi mentre mostra una certa personalità, successivamente si trova ad agire in modo da assumere una personalità diversa da quella precedente. Da questa concezione deriva il problema dell’incomunicabilità e dell’incomprensibilità che angustia l’essere umano e tormenta l’esistenza. Tale insoddisfazione in “maschera” è un tema che Pirandello ha sviluppato nei suoi romanzi, nelle sue novelle e nel suo teatro. L’uomo cerca di sfuggire una vita angusta e priva di soddisfazione, ma questo rifiuto della vita, di una certa vita, è esso stesso amore per la vita, per una vita che ognuno cerca affannosamente di costruirsi. Per esempio, Il tentativo di evasione di Mattia Pascal fallisce in pieno e lo ricaccia in una nuova situazione mutata in peggio, in cui egli si trova senza la sua famiglia, senza i suoi amici, senza i suoi affetti. Il dramma dell’uomo è quello di non poter avere una propria individualità, perché ognuno diventa uno sconosciuto per sé e per gli altri. La visione della vita che Pirandello ebbe ispirò le vicende dei suoi personaggi: “Io penso che la vita è una molto triste buffonata; perché abbiamo in noi, senza sapere, né conoscere, né da chi, la necessità di ingannare di continuo noi stessi, con la spontanea creazione di una realtà, una per ciascuno e non mai la stessa per tutti, la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria”. Di fronte alle concezioni di Pirandello la critica è stata molto divisa. Alcune critiche hanno fatto scaturire un sistema filosofico che è espressione dell’angoscia dell’uomo moderno e del suo mondo. Altre hanno tolto ogni valore a quelle idee e, tra tutti, Benedetto Croce vede nell’ideologia di Pirandello: “Espressioni di uno stato d’animo scettico, pessimistico, desolato, esasperato, di un uomo che si sente avvolto in tenebre non diradabili e vede cedere e sfuggirgli ogni punto sul quale tenta, o potrebbe tentare di appoggiarsi”. Al di là del pensiero di Croce, Pirandello fu un grande innovatore sia come drammaturgo che come poeta e, non a caso, fu insignito del Premio Nobel per la letteratura; tant’è…
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Le origini, per lui, sacralità e ricerca. Il caro nonno, “le nozze d’oro” che il tempo non ha scalfito. Quattro amici vicino e i calici di vino levati. Un semplice messaggio partito dal cuore che non invecchia e irradia gioia. Il legame forte di Franco con la madre che cuciva “le camicie a quadri…: a piede svelto su la pedivella”.
La madre che cantava cucendo. La madre che ha trasmesso in Franco, poesia. Il suo amore per ogni forma di bellezza: “la cupola grande del Brunelleschi/ ed ascolta/ un richiamo nel cuore/ Una volta per sempre figlio, figlio…”. Culto per la bellezza. Una bellezza umana di memorie di artisti, “volti amari, frustati dalla sferza/ della vita, quasi cancellati…”. Gioia, dolore, primavere all’inizio della vita e poi inverni, compagni del tramonto. Importante vivificare i ricordi e ritornare “alla siepe dell’orto/ come al mare/ più grande. Sotto la pioggia/ più non sorbisco il vino/ nel fervere del tino/ ora che conto gli anni alla rovescia…”. I ricordi sono vivi e caldi perché permeati d’amore. Un amore che abbraccia l’infinito. La casa antica che non c’è più, ma vive; il padre sotto il portico a riposare; la mamma a cucire accanto al fuoco; il vitellino – trampolante – nella stalla, il suo cane, il pane che la sua mamma faceva e le “castagne” che scoppiano sulle braci. In anni ormai lontani, per strada si vendevan “le bruciate” in sacchettini e il semellaio davanti alle scuole che gridava: semeli, semeli…
Semplici realtà che scaldavano il cuore in un tempo semplice dove ci sentivamo signori “con tre bricie e un dito di vinsanto”.
Una poesia che, parlando di cose semplici, sconfina in un infinito dove il parlare diviene sacro. “…Verso sera…tu ti fermasti lungo il viottolo/ affaticato/ avevi sete/ ti diedi l’acqua della mia mezzina/ che sapeva di pozzo/ Mi mettesti una mano sulla spalla/ come per dire grazie… Ed io/ divenni cristiano/ guardandoti negli occhi”. Intorno al mondo di Franco odore di cielo e di terra. A Franco piace ritornare al caminetto antico dove mette due legni a “fialoccare”. Non c’è nessuno intorno e lo assale, nostalgia. Sente i suoi anni di uomo solitario; solo, ma con il sentirsi sempre accanto i suoi perduti e mani tese verso quel fuoco.
Ha gli occhi volti alla natura: tra nebbie pallide e lontane “dietro una foglia il panorama appare”; l’Arno che scorre e all’orizzonte “le case mute di pietra cemento” e un vento triste sulla sera riporta il poeta alla realtà del suo scontento. Cosa può consolarlo? “la punta fiorita di un pennello/ apre un mondo che vivo s’indovina/ In una iridescenza di acquarello,….” e rivive il ricordo della donna amata, “quasi una bambina,/ mentre cogli i papaveri a mannello”.
Il mondo giovane di Franco è ammantato di fiori “come specchi”, di anemoni, fiori del vento e poi, le foglie d’autunno con la loro bellezza crepuscolare: “Voi siete la memoria dei fiori dell’estate”.
Ancora, vasi di fiori di campo e “distese di rosolaci (che)/ Insanguinavano i campi di grano/ giallo, non ancora brunito/ sgorgavano dalla terra profonda/ come sangue, a onda/ su campi di grano infinito”.
Le serene solitudini di Franco sono popolate di piccioni che “nella campagna si erano involati,/ ora sono con me, sulla poltrona,/ che qui in anni lontani sono nati./ Nacquero dal dolore: fu un gran volo/ perché mio padre se ne era andato/ lasciandomi nel giorno un po’ più solo…: ora che son tornati ai davanzali/ insieme a loro devo fare i conti/ E vorrei dirgli: spiegherete le ali/ quando la neve scenderà dai monti/ e nel candore blu dell’universo/ avrete scritto voi l’ultimo verso”.
Quando vado a trovare Franco, lo trovo col volto sorridente; il sole illumina il balcone e i suoi amici piccioni. La loro tenera giocosità, il loro volo lieve e il loro tubare, consolano Franco della tristezza del mondo. Tenera questa simbiosi tra Franco e gli uccelli: “Ne sottotetti dove hanno dimora/ oltre la mia terrazza e nella notte/ Mi sembra tutto un lieve pigolare/ come quello remoto, delle stelle/ E forse, mentre dormo un batter d’ali”.
Caro Franco che vivi nel tuo mondo di ricordi e di colori allietato dal volo dei tuoi amici piccioni. La tua solitudine trova compagnia in questi volatili che ti sono grati “per due semi da beccare”. Il tuo amico, detto il bianco, che ti guarda “con gli occhini rosso smalto”. Vola via, ma il suo esserci stato, diviene presenza, simbiosi. Franco vola con lui per poi ritornare “ed in studio, chiuso, resto”.
Ancora amore per Franco: il mare. L’attesa prima delle vacanze. Il grande respiro del “mar da cui tutto viene e tutto torna”. Il mare va ascoltato in silenzio…
Il bellissimo silenzio di Franco che si traduce in versi che, con parole chiare, aprono infiniti spazi all’amore.
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È vietato riprodurre il presente testo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autore/Autrice. La citazione è consentita e, quale riferimento bibliografico, oltre a riportare nome e cognome dell’Autore/Autrice, titolo integrale del brano, si dovrà far seguire il riferimento «Nuova Euterpe», n°01/2023 unitamente al link dove l’opera si trova.
Gli stracci della carne.” (la sua schiena è una curva di falce)
“Poi giunse la notte
E le farfalle
Si spensero ai bruchi.”
La sua voce
ha un odore terminale di madre.
(ai morti di Auschwitz)
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