É con grande gioia che attraverso questa ultima raccolta di Claudia Piccinno, innanzitutto guardando alla bellissima intesa dell’autrice con l’amica poeta e sua straordinaria traduttrice Elisabetta Bagli, intesa che continua il dialogo intessuto dalle due amiche nella precedente intensa raccolta a quattro mani, dal titolo Versos Cruzados (Editorial Dunken, 2021).
Questa corrente empatica che porta a realizzare un dialogo poetico oppure, come in questo libro, a offrire le proprie poesie in traduzione, mi conferma l’efficacia comunicativa di una modalità di incontro tra poeti che riflette un profondo scambio emozionale,ma che si spinge al di là della solita dilatazione della parola oltre un confine linguistico. Leggiamo infatti questo scambio come qualcosa che, attestando l’incontro tra due sensibilità, si oppone alla possibile deriva egoica e spesso autoreferenziale di una scrittura individuale tout court.
Ma cerchiamo di entrare nelle stanze di questa raccolta che nel titolo dichiara l’apertura all’azzurro, elemento cromatico collegato da sempre, oltre che alla spiritualità, alla profondità e alla vastità. Chi legge avverte infatti subito l’aprirsi di un largo cielo visionario che attraversa realtà e memoria, natura e mito, ma che diventa anche un mare, il mare della vita personale e collettiva, le cui onde sono gli infiniti e pure inaspettati eventi da affrontare, le ferite ricevute, l’incessante ripetersi di naufragi collettivi per gli errori umani, ma anche il resistere ostinato della speranza.
In questo vasto azzurro i testi si stagliano nella loro concisione e limpidezza, come a indicare l’urgente necessità di una sincera comunicazione volta ad un rigenerarsi collettivo, nonostante le rare gioie e le più frequenti amarezze oscurino l’intensità dell’azzurro con l’ombra del disincanto.
Così accade che la percezione degli eventi nel mondo e la riflessione sull’esistenza si mescolino di continuo dando vita a scene ed epifanie in un mosaico visivo e simbolico costantemete caratterizzato da un’incisiva impronta etica.
E percorrendo dall’inizio i testi notiamo subito come la prima urgenza comunicativa sia stata quella di salvare la sacralità degli affetti fondamentali, sottraendo per sempre dalla evanescenza la memoria dei genitori scomparsi (Ad ogni finestra d’azzurro; A mio padre).
Sono queste prime finestre ad aprirsi e lo fanno in modo invertito, non aprendosi all’esterno, ma nel proprio cielo interiore, a indicare il senso profondo di un sentimento assoluto, incrollabile, dispiegato attraverso percezioni uditive (la voce materna che chiama dal cortile dei giochi), olfattive (il profumo delle arance raccolte dal padre), simboliche (la piuma, il vento, le corone d’alloro). Qui subito si evidenzia la cifra poetica di Claudia Piccinno nella forma e nel ritmo, con l’andamento libero e armonioso di un racconto-fabula in versi, a volte scosso dal battere delle anafore, spesso chiuso da un finale epifanico.
Un’altra finestra di grande delicatezza psicologica, che si apre nell’azzurro della memoria è quella che dice di un’altra mancanza, così crudele perchè avvenuta durante l’infanzia (Compagno di scuola), quando si è disarmati, tanto da sentirsi “in castigo” , per chissà quali piccole colpe ingigantite dalla perdita (quanti tra i lettori si riconosceranno in questa dimensione!).
L’esercizio incessante dello sguardo porta poi inevitabilmente l’autrice a notare le colpevoli incongruenze della contemporaneità, il mancato progresso sociale ed etico, se ancora non solo non si è raggiunta la vera parità di genere (giacchè la donna è ancora oggi paragonabile alla sapiente Aspasia di Mileto, non riconosciuta nel suo valore perfino dallo stesso Pericle che l’aveva amata), ma anche perchè ancora l’umanità persevera nell’errore, non annullandosi l’assurdità di guerre e violenze. Sono, queste, le domande centrali dell’oggi, cui ogni poeta non può sottrarsi. Sono domande che sottendono il senso universale profondo dell’esistere, mentre si continua a percepire il correre della vita come un insulso girare a vuoto, anzi come solo “ rumore “, privo com’è della luce dell’incontro vero (Nel codice alfanumerico).
E l’autrice reagisce ad ogni deriva dichiarando di non poter che “predisporsi al silenzio”, come in una rassegnazione muta, che trova sollievo solo nella contemplazione e nell’ascolto della natura. Sì, perchè in natura perfino le pietre, con le loro soluzioni di saggezza geologica millenaria, ci parlano di un equilibrio tra materia vivente e non vivente ancora possibile (La rupe; Le pietre di Sardegna). Se sappiamo ascoltarlo, vi è un intero continente fuori di noi che ci parla: voci di rocce acque piante a indicarci, semplicemente coabitando in vantaggio reciproco, una dimensione armonica di salvezza.
Per Claudia Piccinno vi è anche un’altra soluzione di resistenza, che sale dal profondo della sua interiorità: è il fermo proposito di conservare intatta la propria schiettezza, non tener conto del disconoscimento altrui del proprio valore, di ogni ingratitudine, anche se è doloroso veder montare la disillusione e cadere l’entusiasmo.
Ci rendiamo allora conto che queste riflessioni di Claudia Piccinno sono anche le nostre, anzi riconosciamo, come sempre accade in poesia, il senso universale che investe questa parola poetica nel nostro tempo di deriva, tempo del disincontro, che scorre tra virtuale e tecnologia, tra indifferenza e superficialità. Claudia Piccinno, come altri poeti contemporanei (posso citare Jorie Graham, Cristina Bove, Laura Liberale, Giuseppe Yussuf Conte), sta lanciando un alert in poesia, che è la nostra fiera ribellione contro la disumanità che avanza con il suo corredo di potere, alienazione, mancanza di solidarietà. E dunque accogliamo la sua indicazione nel voler restare “vetro”, che soppravvive in virtù della propria limpidezza (Plastica nelle vetrine); soluzione di semplicità cristallina, non affidata a formule, ma al proprio istinto che, decidendo di sottrarsi ad ogni pesantezza da pensieri dolorosi o da urti ricevuti, cerca solo la levità, l’onestà, la benevolenza, l’incontro e il continuo stupore (L’arte del sottrarre).
Questa scrittura di donna non poteva poi escludere l’esperienza di madre tormentata, come lo sono tante madri, che però lascia sempre aperta la porta alla fiducia nel futuro, purchè sia costruita con il legno del coraggio e mai della resa (Lente le ore), con la consapevolezza che ogni esperienza, anche la più dolorosa, è riserva di forza e sempre di sovrabbondante voglia di donare (Il dolore che mi porto dentro).
La scrittura ritorna poi a trasmettere le voci autentiche dell’umanità abbattuta e violentata nel passato, il grido di sangue versato nei conflitti che giunge da luoghi e immagini significative (Cracovia, il Piave, l’olivo di Fossoli giunto da Israele), per ricordare ancora una volta l’insensatezza della morte per-uomo (Zio Tore; Ciao Gazzella).
Non sono poi da tralasciare le poesie raccolte a fine libro nella sezione Frammenti di vita, dove l’autrice mostra la sua ricchezza visionaria unita alla sapienza nel mescolare immagini, colori e sensazioni e alla sua straordinaria padronanza del ritmo (Ragnatele cremisi e segg.).
Poesia profondamente civile e dunque profondamente contemporanea, pure poesia coraggiosa, che prende le distanze da ogni eventuale giudizio smaccatamente letterario-estetico, preferendo dichiarare la propria fede aperta alla parola della speranza: quella di un’inversione di rotta dell’umanità verso l’etica dei comportamenti, la sola dimensione che fa umano l’essere umano (E tu nascesti, nasci e nascerai).
Per queste ragioni sento questi versi costeggiare la Parola assoluta, divenire segno umano degno di memoria.
E per queste ragioni invito caldamente i lettori in duel lingue a leggere queste pagine.
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È vietato riprodurre il presente testo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autore. La citazione è consentita e, quale riferimento bibliografico, oltre a riportare nome e cognome dell’Autrice, titolo integrale del brano, si dovrà far seguire il riferimento «Nuova Euterpe», n°01/2023 unitamente al link dove l’opera si trova.
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NB: Dedicata al recupero del Palazzo Ducale di Piedimonte Matese
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Mi sono sempre domandato, e continuo a farlo insistentemente, da dove arriva la poesia, da quale fonte scaturisce (il problema del che cos’è e a che serve si presenta dopo).
E’ depositata in qualche luogo segreto e c’è qualcuno predestinato a scovarla e a portarla all’umanità, oppure cammina nell’aria, invisibile, e soltanto alcuni eletti (o condannati) possono vederla, coglierne qualche petalo e offrirlo?
E’ un problema che non sarà mai risolto. Le ipotesi si sono succedute nel tempo e filosofi, critici, teologi e psicanalisti hanno tentato una strada e un’altra senza mai arrivare a una conclusione.
E sono convinto che non ci potrà essere conclusione, perché la poesia, tra le tante cose, è innanzi tutto mistero del senso, visione di un palpito che chiede ascolto nello stesso istante in cui si dissolve.
La verità è che appare, indica e diventa brezza di un annuncio rivolto quasi sempre all’immaginazione.
A cogliere questo annuncio è il poeta o il presunto tale. Ma il presunto tale s’investe da sé, si dà un ruolo da sé, assolve a una funzione per la quale non ha né ragioni, né inclinazioni, né meriti né vocazione, né fini.
Ed ecco che la categoria poeta (o come bisogna indicarlo?) si trova ad avere davanti un binomio terribilmente dispari: l’eletto, o l’imbecille presuntuoso che crede di essere eletto e si investe dell’alloro, convinto di avere trovato la chiave per entrare nel mistero, di essere il portatore di stelle e di arcobaleni “neniando” la mediocrità e la superficialità.
La poesia si concede soltanto alla follia, a quella vera, accertata, indissolubile, perché è attraverso la follia che può portare il lettore nei meandri del divino o del nulla, del divenire o delle perdite, delle acquisizioni impossibili o delle dissolvenze illuminanti. Se il poeta non fosse folle, almeno nell’istante in cui coglie le parole inimitabili che il mistero gli suggerisce, non potrebbe sopportare l’abbacinamento, il fuoco violento che forgia il nuovo senso.
Immagino lo scetticismo con cui possono essere valutate queste mie affermazioni, immagino l’accusa di esoterismo, di vaghezza, e di altro, ma se si fa attenzione ci si può rendere conto che nelle parole dei poeti veri non c’è mai vaghezza o esoterismo gratuito, non c’è mai approssimazione. Anzi, cito da Nelo Risi, il poeta è un supremo realista che ha la possibilità di leggere la realtà nei dettagli, nelle sfumature, nei rivoli laterali, oltre che nell’essenza. Il poeta è nella pienezza della realtà e nella sua marginalità e dunque ha facoltà di entrare nell’immensità del finito e dell’infinito, nella briciola che si fa universo, nell’universo che si fa briciola.
E si badi che non si tratta di sillogismi, ma di esperienze vissute in prima persona e vissute e verificate attraverso migliaia e migliaia di altre esperienze.
Negli anni ho raccolto una infinità di “definizioni” della poesia e mi sono reso conto che, pur contraddicendosi, hanno tutte ragione. Ciò può soltanto significare che il mistero e il senso intimo delle cose hanno sfaccettature cangianti, perfino ibride, e che bisogna temprarsi alle ragioni incomprensibili dei messaggi della poesia. Che non sono messaggi da intendere nell’accezione usuale, ma messaggi che hanno la sostanza di input, che al momento del coagulo definitivo si spostano e deragliano in altro, a testimoniare che la vita stessa è deragliamento di senso, approdo non codificato e non codificabile, nonostante quel che dicono i benpensanti abitudinari e le religioni.
Dev’essere questa sfuggente materia incandescente di cui è fatta la poesia a causare a volte corti circuiti anche nei poeti veri che in alcune situazioni non riescono a tenere il passo degli scardinamenti, degli smarrimenti e delle sottrazioni e arrivano al suicidio.
Dentro la follia dunque nasce la poesia. Ma attenti, nessuno psichiatra sarà mai in grado di stabilire in che padiglione ricoverare il poeta. In tutti e in nessuno, perché quella della poesia è malattia non definibile, non catalogabile, eppure infettiva in maniera pericolosa, perché crea epidemie che simulano alla perfezione la malattia e fa fiorire la banalità con un sussiego che ha forme perverse e stupide, cadute nel vuoto, nella sciatteria, nella miseria umana e nel sussiego più irritante.
Conosco una miriade di imbecilli che scrivendo “è spuntato il sole / e illumina” sono convinti di avere creato qualcosa di eterno. Certo, lo spuntare del sole è eterno, ma il fatto che qualcuno lo ribadisca è soltanto tautologia, notizia priva di emozione, di mistero, di implicazioni che portino oltre la sfera del risaputo.
Dicevo che poesia e follia sono una equazione perfetta. Dicevo anche che questo tipo di follia in rapporto con la poesia non è decifrabile o catalogabile. Allora come fare a cercare la fonte da cui scaturisce la parola che poi, se è poesia autentica, illuminerà il percorso umano?
In molte occasioni mi sono domandato se senza la poesia il mondo odierno sarebbe così com’è o peggiore o migliore. Non ho avuto mai nessun dubbio, peggiore, ancora felino e scompostamente acerbo, perfino disumano. Capisco le obiezioni di coloro i quali affermano che per secoli la maggior parte dell’umanità è stata analfabeta e quindi non ha mai letto un verso. Ma si tratta di obiezioni di parte, perché non è la divulgazione della poesia a determinare il fattore etico che s’insinua nelle organizzazioni sociali, ma arrivare nell’animo dei legislatori, dei politici, dei governanti.
La poesia non fa il gioco diretto, ma quello indiretto: illumina il senso e lo arricchisce di quello spessore che permette di alzarci al di sopra del senso comune.
Adorno non aveva ragione quando dopo la barbarie nazista affermò che ormai la poesia era morta e non aveva più motivo di esistere. Non ha pensato che forse se non ci fosse stato il “deterrente” della poesia ad aleggiare in qualche modo nelle scorie di qualche cervello, forse lo sterminio sarebbe stato più vasto, più feroce, più duraturo?
Il folle vede cose che gli altri non vedono; vede la luce nel buio, la bellezza nell’ombra, il dolore in un campo di girasoli, la gloria in una finestra spalancata, la felicità in una carezza, il lupo in una goccia di rugiada, la miseria in un sorriso… Cioè vede oltre, vede l’invisibile, e ce ne dà la misura se riesce a trovare le parole che possano addensare quel rapporto, quella visione, quella luce. E se ce ne dà la misura, vuol dire che è poeta, non è soltanto folle. Se invece non riesce ad andare oltre ed è chiuso nel limite della demenza, allora significa che quel folle è folle soltanto, non ha il privilegio di un ulteriore occhio, di un ulteriore cuore, di saper entrare e uscire dal nido di semenza che cresce alitando come un miracolo.
Attenti però ai finti folli, a coloro i quali hanno magari subito la follia per un certo periodo e poi sono ritornati nella normalità della vita quotidiana non riuscendo ad andare mai oltre la siepe. Ma consapevoli di una esperienza se ne ricordano e la utilizzano facendo credere agli altri di essere ancora al fondo dell’abisso.
La follia ha uno sguardo che non si può imitare nemmeno dopo averlo avuto e poi perduto, e il folle finto poeta, il poeta finto folle rimugina dolore e tristezza, negazioni e limiti con un vezzo che io ho trovato sempre comico. E’ il caso, per fare almeno un esempio, di Alda Merini, che ha spettacolarizzato la follia per imporre una poesia del patetismo a volte perfino becero e comunque abbastanza di maniera.
Chi invece ha subito le stimmate irreversibili della follia è Dino Campana, che con Canti orfici è riuscito a darci il ritratto di una condizione umana e poetica rara, in cui il crogiuolo delle contraddizioni e delle lacerazioni diventa inferno senza remissione fino a far credere che le immagini da lui usate siano prestiti dal surrealismo e sono invece magma incandescente delle metamorfosi che lo dilaniano e lo sbattono in terra ogni volta che tenta di rompere la catena delle tentazioni e perfino delle rinunce. Dino Campana è dentro ogni suo verso con anima e corpo, s’immola, muore, resuscita, ricade nel mulinello del vuoto e si ricrea in una immagine sapendo d’essere appena un seme marcio che non potrà fiorire se non nella parola.
Ed è questa parola che deve portare il lievito a chi legge (badate che non ho detto messaggio, ma lievito), deve sincronizzare l’assurdo verso la luce, l’intuizione verso la forma, quale che possa essere.
Un caso recente è quello di Maria Marchesi, sulla quale aleggia il dubbio addirittura della sua esistenza.
La Marchesi ha dissacrato tutto. Due libri in vita, uno postumo. In ogni pagina dei suoi tre volumi c’è la dannazione che avvampa, c’è il tripudio dell’indecenza come arma per tagliare con le consuetudini, c’è la dissacrazione della sacralità e delle assuefazioni, dei rituali e di tutto ciò che è considerato intoccabile. Perfino i miti della poesia vengono sconvolti e vivisezionati, non so, Beatrice, Laura e Silvia, in modo che attraverso il filo rosso della follia ogni arbitrio risulti verità del profondo e non accoglimento dello stato di fatto.
Eppure non è terroristica, la sua non è protesta politica e sociale, ma presa di coscienza di una condizione attraverso la quale la realtà si apre e gioca a nascondiglio offrendo al lettore la possibilità di entrare nelle verità dell’altro lato della medaglia.
Ma non vorrei fare l’elenco dei poeti dichiaratamente folli, di quelli che sono stati ricoverati nei manicomi, molti dei quali si sono suicidati. Vorrei fare intendere come la follia alberga silenziosa in tutti i grandi poeti, anche quando questi non hanno dato segni di squilibrio comportamentale, nel rapporto con gli altri, nelle azioni quotidiane.
Cominciamo da lontano. Dall’Alighieri. La sua follia è totale. Egli riesce ad entrare nella condizione del morto e riesce a visitare il regno dei morti con una naturalezza che soltanto chi è veramente morto (il corpo non c’entra) può descrivere con tanta naturalezza e verità. Egli è un tramite che dentro la follia trova la strada del cammino verso la Luce.
Non è da meno Petrarca. Laura c’è e non c’è. Ha poca importanza. C’è l’amore, che si espande, che bussa, che chiede, che inonda, che patisce e che grida da luoghi lontanissimi il suo dramma. Se non ci fosse la follia a sorreggere il poeta tutto si sfalderebbe in cerimoniose adesioni a un’idea di donna dentro la banalità di un desiderio, grande o piccolo che sia.
Ma dove la follia impera e gode fino alla esasperazione, fino a farsi incanto di voli senza protezioni, è L’Orlando Furioso. Ariosto ha ceduto il suo cervello all’ammasso e resta a guardare se stesso mentre ha a che fare con protagonisti così bizzarri. Gioca, ma è un gioco di riflessi che ci portano dentro la magia di sussulti avvertibili soltanto se si ha l’umiltà di mettersi in sintonia con il ritmo delle ottave.
Ritmo che si ha dolorosamente sincopato, solenne, imprevedibile ne La Gerusalemme Liberata.
Sulla follia del Tasso sono stati scritti tanti volumi, ma nessuno ha mai detto che il poeta riesce a cogliere la prepotenza della sua poesia da un’angolazione così particolare che ha fatto pensare a una ostinazione invece che a una scelta.
Scelta fatta dalla sua follia, punto di vista fatto dalla sua follia che perseguiva le vicende per poterle aprire nel laboratorio della sorpresa assidua. Sì, Tasso ha seguito le indicazioni di un laboratorio che lo ha spinto a guardare attentamente fino a rendersi conto che poteva vedere attraverso il muro, che poteva ascoltare le voci del passato, e poteva rinascere dai residui della civiltà dei padri. Si rileggano attentamente soprattutto le sue Rime immortali.
Poesia e follia!
Non è una formula inventata per parlarne a un convegno, ma la scoperta di una condizione imprescindibile, di una realtà esatta che però è stata da sempre negata o distorta. O volutamente o ingenuamente interpretata in modo approssimativo e tendenzioso.
Ho letto nel romanzo di un’autrice americana una frase che mi ha dato la conferma di come girano i luoghi comuni e si radicano: “Che cosa sono depressione e psicosi, in fondo, se non deviazioni dal realismo?… Un Dio insufficiente è meglio che nessun Dio”.
Soltanto l’ingenuità americana di Martha Cooley poteva trovare una formula così. Come dire che chiunque si allontana dal circuito si allontana dalla verità. Orribile! Semmai chiunque si allontana dal circuito può incorrere in un incidente, può perdersi, può scantonare, ma è comunque su una nuova strada e non è fuori da nessun realismo né tanto meno è deviazione dal realismo. Ecco, la poesia nasce quasi sempre dall’uscita del circuito e non per partito preso, per una sorta di incarico imperativo ricevuto da qualcuno, ma perché la poesia ha il compito di cercare l’insondabile, l’imprevisto e l’imprevedibile, l’ingranaggio che si muove lontano dalle abitudini. Certo, un simile comportamento, nelle varie società organizzate dentro regole precise e codificate, fa scandalo, preoccupa, indica una direzione non prevista. Ma la poesia deve fare sempre scandalo, o con la sua semplicità e la sua essenzialità, o con la sua valanga che deve rigenerare il vento flaccido del risaputo.
La poesia vera può risultare a prima lettura addirittura un paradosso, perché anticipa e mette davanti al futuro. E chi ne ha paura pensa subito alla follia. Ma certo, è frutto della follia, perché soltanto il folle riesce a vedere lontano, molto lontano, a percepire i mutamenti che verranno, perché necessari per la sopravvivenza dell’uomo.
Ha scritto Daniel Defoe che “Il Diavolo, condannato a vagabondare, girovagare, essere nomade, non ha una fissa dimora e pur avendo una sorta di impegno sulla distesa liquida o sull’aria, essendo la sua natura angelica, è sicuramente parte del castigo il suo non possedere uno spazio o un luogo su cui posare la pianta del piede”.
Ecco, il poeta è condannato a vagabondare, girovagare e guai se posasse la pianta del suo piede su qualche superficie. La sua parola sarebbe inchiodata a una data epoca e non all’universale, al tempo senza tempo. Naturale quindi che, non avendo mai sosta, non avendo casa, non avendo uno scopo pratico e immediato, egli si trovi nella condizione dello “sbandato”, del “clochard”, del “randagio” . In realtà egli è assolutamente libero, non legato da niente e da nessuno, ha la stessa natura del vento, cioè è folle. Folle dentro la saggezza del movimento, della forma che si rinnova, del tripudio del senso che si rincorre e di disfa, che si crea e si rinnova, mai sazio e mai pago del raggiungimento.
In questa accezione la follia si fa mano di poesia e ridisegna ogni giorno il colloquio necessario per non diventare biblioteca della morte.
Comunque poesia e follia è tema di cui si sono occupati i maggiori psichiatri e ognuno ha detto la sua con esempi presi in prestito sia dalle proprie esperienze e sia dai classici della poesia grazie al fatto che sia il poeta e sia il folle sono attraversati dalla dinamica del profondo. Da Basaglia a Borgna i riferimenti accurati si sono fatti seguendo passo dopo passo i versi di alcuni morti suicidi o isolati dal mondo per propria scelta. Ma io vorrei sottolineare che non c’è bisogno di ricorrere a Silvia Plath, a Cristina Campo, a Nietzesche, a Walser, a Milton, ad Antonia Pozzi, per rendersi conto che davvero e incontrovertibilmente “In ogni ombra c’è un po’ di grazia”, come diceva Simone Weil. Si può perfino ribaltare e dire che in ogni grazia c’è sempre un po’ di ombra.
E’ evidente comunque che ricorrere alle citazioni dei poeti aiuta a entrare nella pienezza del discorso senza alzare muri di dubbio, ma basterebbe ricordare quel che diceva Erasmo da Rotterdam sulle passioni (“In primo luogo è pacifico che tutte le passioni rientrino nella sfera della follia”) per essere certi che davvero “La follia è la sorella sfortunata della poesia”.
Potrei continuare all’infinito, ma mi pare che Clemens Brentano abbia colto in pieno il rapporto esistente tra poesia e follia.
Già nel Cinquecento un erudito inglese, un certo Burton, affermava che “Tutti i poeti sono matti” e comunque l’idea era mutuata da fonti greche, a dimostrazione del fatto che sul poeta anche la gente comune ha sempre avuto un atteggiamento sospetto. Già, un uomo che corre appresso alle parole come i bambini corrono appresso alle farfalle o come il vento corre appresso il polline che cosa può fare di concreto? Che può dare a se stesso e agli altri?
Riporto un aneddoto che altre volte mi è occorso di ricordare. In un paesino della Calabria, San Demetrio Corone, nel secolo scorso c’era un collegio tra i più importanti del sud, con un liceo di riguardo. Ma spesso i posti letto del collegio non bastavano e allora qualche studente doveva andare a pensione presso le famiglie del paese.
Tra questi studenti ci fu uno scrittore calabrese, un poeta, Sharo Gambino, di Serra San Bruno, che abitò presso una famiglia distinta. A distanza di anni la signora che l’aveva ospitato si ricordò del giovane e domandò sue notizie alla nipote studentessa universitaria. La nipote rispose: “Nonna, Sharo è diventato un poeta”. E lei, di rimando, facendosi il segno della croce: ”Dio mio! Eppure era un bravo ragazzo”.
Voglio dire che la follia, se si legge la filigrana degli scritti dei poeti, la si trova perfino in quelli che all’apparenza sembrano perfettamente normali secondo i canoni correnti. Giovanni Pascoli può essere un esempio probante. La sua vita è scorsa nei binari del perbenismo, nella routine di una quotidianità che non pare mai scossa da nessun terremoto, se non quello del dolore, ma se scaviamo in alcune sue liriche sentiamo che lui è dentro visioni che si sfaldano, sensazioni che hanno forme astratte simili a fantasmi che mutano e gemono sull’orlo degli abissi.
Ma io, ovviamente, parlo da poeta e senza cognizione della psichiatria, e quando dico follia intendo l’andare controcorrente, non restare nelle norme, allontanarsi dall’acqua stagnante del risaputo e mettersi contro l’assiepamento del senso del finito.
Se un poeta invece si accoda, se accetta di restare nel cerchio del giardino concluso e profumato di passato, seppure perfetto, allora vuol dire che è soltanto un esecutore di forme vuote, un finto poeta, uno che ripete le onde imitando la vita interiore che non è mai ferma, mai paga, mai definita.
Non posso dunque schierarmi con nessuna scuola psicologica o psichiatrica, ma osservare quel che mi si è mosso dentro ogni volta che ho aperto un testo le cui parole sono frutto caldo del sangue e non versione scolastica.
Nell’Avvertenza a Psicologia e poesia di Carl G. Jung troviamo un riferimento a, Hermann Hesse:
“… il giovane Emil Sinclair, scopre su un banco un foglio sul quale si legge: ‘L’uccello si sforza di uscire dall’uovo. L’uovo è il mondo. Chi vuol nascere deve distruggere un mondo”.
L’esempio mi pare evidente. Il poeta vuole nascere e per farlo ogni volta deve distruggere il mondo, mettersi contro ogni regola, seguire “l’esperienza visionaria” consapevole o non, anticipando “mutamenti presenti e futuri” e additando “possibilità di rigenerazione a tutta l’umanità”. Ci sono dei versi di Raffaele Carrieri che “spiegano” molto bene questa condizione: “Il poeta muore diciassette volte in una sola giornata, poi viene la morte e dice basta”.
Però forse è bene specificare che la poesia non è il frutto diretto della malattia. A volte i poeti si immedesimano così tanto e così tanto bene da essere ammalati soltanto per il periodo che occorre per essere veritieri, credibili, veri. Il poeta può, riesce a fingere fino a diventare vero. Non si tratta di credibilità o meno, né di finzione teatrale portata all’estremo limite, ma di vera e propria immersione nella follia in modo che nessun freno inibitorio, nessun condizionamento intervenga o possa avere diritto di modifica o di limitazione.
Ma a questo punto si apre un’altra voragine e Jung direbbe che al poeta “Non gli resta che obbedire e seguire questo impulso apparentemente estraneo, rendendosi conto che la sua opera è più grande di lui, e perciò ha su di lui un potere al quale non può sottrarsi”. Un fatto è certo: la poesia è frutto di un processo lungo che macera all’interno dell’anima e nell’indeterminatezza dell’inconscio e la conoscenza umana può poco o niente per analizzarla nelle scaturigini. Non sapremo mai da che cosa si genera la parola che accende i lumi dell’indeterminatezza e si fa lucida determinatezza spiegando l’indecifrabile attraverso le lenti del sogno. Un sogno che naviga naturalmente, che si forma, cresce e si espande alla stessa maniera in cui lo fa un fiore. Meccanismi imprendibili nel loro farsi e disfarsi, nel loro alitare a volte parole che aprono ferite, che fanno sanguinare, che costruiscono interi mondi o li demoliscono, che sono melodie ch’erano perdute, recuperi di verità affondate nei baluginii di un dissesto che anelava alla perfezione e alla compiutezza.
Forse è tutta una illusione?
O è soltanto una maniera che consapevolmente o inconsapevolmente ci avvicina a Dio, ai disegni segreti dell’essere e del divenire? Per dirla con Celan “E’ come porsi fuori dell’umano, un trasferirsi, uscendo da se stessi. In un dominio che converge sull’umano ed è arcano”.
Dopo tutto ciò che ho detto però alla fine mi sono ricordato di quel che diceva Sant’Agostino sul tempo: “ Che cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so”.
Jorge Luis Borgese propone di applicare la stessa domanda alla poesia. Io propongo di applicarla anche alla follia.
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Ispirata alla raccolta di Sophia de Mello Breyner Andresen
Nel giardino di Sophia la notte si è spogliata
tra le memorie dell’edera e il passo taciturno dei muschi verdi
mentre i navigatori hanno deposto il loro destino in una barca
solo le stelle hanno visto dove va a finire l’infinito
c’è anche un poeta uguale agli odori dell’estate
e foglie cariche di febbre che non sanno del sonno
dicono un silenzio al mio udito
le quattro stagioni mi fissano ed è come se il tempo
fosse un eterno fiorire – cento primavere allo specchio.
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È vietato riprodurre il presente testo in formato integrale o di stralci su qualsiasi tipo di supporto senza l’autorizzazione da parte dell’Autore/Autrice. La citazione è consentita e, quale riferimento bibliografico, oltre a riportare nome e cognome dell’Autore/Autrice, titolo integrale del brano, si dovrà far seguire il riferimento «Nuova Euterpe», n°01/2023 unitamente al link dove l’opera si trova.
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